da IL BAMBINO DAL CUORE DI LUPO, Asne Seierstad, Rizzoli.
Dopo le frasi di apertura il giovane passa alle domande che i telespettatori hanno inviato nel corso della settimana. "L'Islam permette di prendere soldi in prestito?" "Sì, se li restituisci. Si possono prendere soldi in prestito solo se è per la famiglia, per costruire una casa ad esempio. Se poi nei successivi tre mesi si ricava un profitto grazie al prestito bisogna ricordarsi di saldare il debito." "Ci si può separare?" "Il divorzio è peccato. Bisogna preparare chi si sposa, e la famiglia che dà via una figlia ha più responsabilità di quella che l'accoglie. L'onore della famiglia sta nella condtta della moglie che deve essere irreprensibile e rispettosa, deve comportarsi da brava compagna e brava madre, non deve infrangere le tradizioni nè essere dissoluta." "Se il marito beve, ci si può separare?""In questo caso bisogna aiutarlo, ma se lui non smette di bere, allora ognuno può andare per la propria strada. E' permesso." Hadizat annuisce. "E se un uomo guarda da una parte?" "Significa che ha altre donne" mi traduce Hadizat. "Quello è il peccato più grave. L'uomo può sposarsi di nuovo se la moglie è malata o non è in grado di avere figli, altrimenti si deve limitare a quella che ha. Tra l'altro si possono avere fino a quattro mogli, quindi non c'è bisogno di divorziare da una donna malata, anche se ci si risposa." "Qual è l'età giusta per il matrimonio?" "Quando la ragazza ha avuto il menarca è pronta per sposarsi. L'età non conta nulla. In quel momento lei è una donna, anche se ha solo dodici anni. I genitori possono predisporre il matrimonio fin dalla nascita della bambina E' la cosa migliore".
L'autrice è una giornalista norvegese che, causa la sua conoscenza del russo, diventa corrispondente estero per un giornale della sua nazione e si ritrova in Cecenia. L'incontro con questa gente e con le loro sofferenze la porta ad essere meno romantica nel suo amore per la cultura russa e a legarsi con la realtà cecena. Io non conosco bene l'origine del conflitto con la russia e non ho nessuna simpatia per gli atti terroristici, dovessero essere anche per una giusta causa. Secondo la giornalista l'origine di tutto è il presidente Eltsin che dà l'ordine di invadere la Cecenia, immortalando alla causa ragazzini inesperti dell'Armata

Rossa e civili e soldati/guerriglieri ceceni. Il libro è bello ed è frutto di esperienze. Alcune figure restano memorabili: una coppia cecena senza figli che comincia ad accogliere gli orfani diventando una specie di casa/famiglia, cosa abbastanza inusuale poichè di solito i paesi islamici non permettono le adozioni. E' un mondo a me molto lontano, pieno di valori che non fanno parte della mia esperienza: precetti da seguire, vendette per onore, maltrattamenti, mancanza di libertà... Ciò che stupisce dell'autrice è la sua audacia/incoscienza di trovarsi in luoghi pericolosi e la sua capacità di creare un legame con chi incontra. Anche se apparentemente non esprime giudizi è evidente, però, che nel conflitto si schiera a favore dei Ceceni.
P.S. La pace sembra impossibile all'uomo. Conflitti rivelano problemi irrisolti, fragili convivenze , dialoghi artificiali. Qui sopra i Ceceni, qui sotto Israele. Ho appena visto un film che non vuole farci dimenticare ciò che è successo nei Balcani. Si intitola "La vita segreta delle parole" con un insolito Tim Robbins. Mostra una possibile speranza. Bello.
Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un'unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi - il nostro doppio, la nostra tragedia - e il fuoco che brucia

noi stessi. Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest'ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina. Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale. Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L'offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi crescerà nell'odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi. Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c'è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma. È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza. Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il

livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico. Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono? Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un'esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione pubblica israeliana all'arroganza e al compiacimento nell'uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati. Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest'ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci. Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un'opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possia

mo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati. Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati.
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