Esistono vari gradi di solitudine, mi disse una volta Deo. La peggiore, secondo lui, era quella di una persona povera "oppressa dalla malattia": "Non puoi permetterti di andare dal dottore. Non puoi nemmeno parlare di come ti senti, perche' saresti considerato un debole. Cosi' la sofferenza diventa la tua compagna." E poi c'era la solitudine che aveva trovato spesso a New York, quella di chi ha l'impressione di essere l'unico a comprendere il dramma dei malati indigenti del proprio paese di origine, a capire qualcosa di fondamentale che nessuno intorno a lui affronta completamente.
(...)
Chiaramente Sharon era una persona fuori dal comune, e il fatto che Deo l'avesse incontrata per caso facendo consegne era stata una bella fortuna, forse addirittura - mi venne da pensare in sua presenza - un segno della Provvidenza.
In Se questo e' un uomo, Primo Levi scrive: "Oggi io penso che, se non altro per il fatto che Auschwitz e' esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza." Ma con tutti gli orrori che aveva patito Deo, il numero di sconosciuti che lo avevano aiutato appariva notevole: la donna hutu presso il confine ruandese, Muhammad il facchino, Chukwu, James O'Malley, e soprattutto Nancy, Charlie e Sharon. Non esisteva un programma di assistenza per gente come Deo. Pensai alla porta che aveva lasciato aperta a Mutaho. "Si vede che qualcosa lo proteggeva" pensai, senza dubbio perche' ero in compagnia di Sharon. E quel pensiero non mi piacque.
"Una delle cose che ho notato leggendo i resoconti del genocidio" le dissi. "e' che la gente afferma: "Dio mi ha risparmiato". Ma non sono sicuro che questo modo di vedere e' giusto. E tutti quelli a cui hanno mozzato la testa?"
"Io ho una teoria" ribatte' lei. "Tanto tempo fa mi sono detta: "Noi siamo infinitamente amati per ogni frazione di tempo che abbiamo, per qunato piccola." E alla fine non e' tragico morire, a qualunque eta'. Anche nella piu' immane tragedia, penso che l'unica tragedia sia il male, e Dio non vuole alcun male. Che la sentiamo o no, siamo circondati da questa presenza amorevole - ai bambini parlo del Buon Pastore, penso sia un'immagine potenete per loro, ma anchwe quella della vite e dei tralci e' bella - che copre ogni secondo di ogni giorno. Per tutti."
IL LIBRO
L'autore e' un premio Pulitzer e la storia e' una storia vera. Racconta la vita di Deo, studente di medicina che scampa a due genocidi, in Burundi e in Ruanda, si ritrova "miracolosamente" e senza niente negli Stati Uniti, dove una serie di incontri diventa per lui l'occasione di una nuova vita. Un susseguirsi di fatti gravissimi e dolorosissimi, a cui nemmeno la psicologia americana, trovandosi impreparata, e' in grado di rispondere, fatti che porteranno ad un bene piu' grande. Il male non e' l'ultima parola sull'uomo e la storia narrata in questo libro ne e' la testimonianza.
40 MARTIRI DEL BURUNDI
+ Buta, Burundi, 30 aprile 1997
Il 30 aprile 1997 vennero assassinati 40 giovanissimi allievi del Seminario
di Buta (diocesi di Bururi), appartenenti alle etnie hutu e tutsi, per non
essersi voluti separare gli uni dagli altri.Jolique Rusimbamigera, studente nel
Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al tragico massacro. Un anno
dopo rese la seguente testimonianza:"Erano tantissimi, mi sono sembrati cento.
Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore,
e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci... Subito hanno cominciato
a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una
parte e tutsi dall'altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili,
coltellacci...Ma noi restavamo raggruppati! Allora il loro capo si è spazientito
e ha dato l'ordine: "Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi". I
primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti... Mentre
giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che
ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: "Padre, perdona
loro perché non sanno quello che fanno". Io pronunciavo le stesse parole dentro
di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio".
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Dopo i martiri per la fede, quelli della purezza e della carità, dal 30
aprile 1997 abbiamo anche i “martiri dell’amicizia”. In quella data, infatti, 40
seminaristi del Burundi sono stati massacrati in nome dell’amicizia e della
fratellanza che volevano difendere a tutti i costi, offrendo così una
testimonianza preziosa per il nostro tempo, ancora caratterizzato dalla
divisione etnica, dall’odio razziale e dalle discriminazioni. La “Svizzera
dell’Africa” (come un tempo era considerato il Burundi) negli Anni Novanta è
attraversata da profondi e sanguinosi scontri tribali, che oppongono la
maggioranza etnica prevalente degli Hutu ai minoritari Tutsi. Scandalosamente
ciò avviene in un paese al 99% cristiano e per oltre il 75% cattolico.
Inevitabile che la situazione dell’intero paese si rifletta anche nelle scuole e
nei seminari, con una rigida suddivisione dei dormitori, degli spazi di gioco e
delle aule tra le due etnie. Mentre molti istituti devono chiudere i battenti
per le forti tensioni interetniche, il seminario di Buta, nel sud del Burundi.
diventa un’isola felice e un concreto esempio di serena convivenza, grazie al
nuovo rettore che lavora molto per abbattere le frontiere e per creare un clima
di amicizia tra gli studenti. Il suo sapiente accompagnamento spirituale riesce
pian piano a far superare il clima di odio e di vendetta che si respira ovunque.
Inutile dire che, se da un lato l’esperienza di questo seminario dimostra con i
fatti che l’amore di Cristo è più forte delle barriere razziali, dall’altro
finisce per rappresentare il più solenne smacco per i “signori della guerra”,
che proprio sull’impossibilità dell’intesa tra hutu e tutsi fondano il loro
infernale progetto di violenza e di morte. “Dio è buono e noi lo abbiamo
incontrato”, cantano e ripetono i seminaristi, al ritorno da un ritiro nella
loro ultima Pasqua che ha fornito basi ancor più solide alla loro spiritualità.
In un clima surreale, con il seminario costantemente presidiato dai militari
tutsi, sotto la martellante istigazione alla violenza propagandata dalla
televisione, con le notizie a raffica di massacri e genocidi della popolazione
civile che fanno vivere in un clima di costante terrore e di preoccupazione per
la sorte delle loro famiglie, i seminaristi cercano di farsi vicendevolmente
forza e coraggio, cercando di mantenere pressoché inalterato il ritmo delle loro
attività e soprattutto la loro unione, al di là dell’odio etnico che la politica
cerca di instillare. Tutto questo fino all’alba del 30 aprile 1997, quando i
ribelli hutu, ubriachi e drogati, irrompono nel dormitorio in cui tutti i
seminaristi si sono rifugiati: stanno attuando non solo un’operazione di
rappresaglia e di pulizia etnica, piuttosto vogliono dimostrare come sia stata
fallimentare l’idea di far convivere le due etnie, convinti come sono che
l’esperimento non possa reggere di fronte alla minaccia di morte. Per questo
ordinano ai ragazzi, armi in pugno, di dividersi in due gruppi, Hutu da una
parte e Tutsi dall’altra. I ragazzi non si muovono: non perché paralizzati dalla
paura, piuttosto perché convinti che di fronte all’amicizia non si possono fare
distinzioni etniche: l’amico resta tale, indipendentemente da come te lo
vogliano rappresentare. Scornati e forse disorientati dalla inaspettata
reazione, gli assassini scatenano l’inferno, mentre i ragazzi, tutsi e hutu
indifferentemente, restano abbracciati tra loro, si sostengono a vicenda, si
aiutano come possono. “Padre, perdonali, perchè non sanno quello che fanno”, li
sentono anche sussurrare Alla fine, su quel pavimento, immersi nel loro sangue,
si contano 40 morti: tutti ragazzi tra i 15 e i 20 anni, crivellati di colpi,
sventrati dalle granate, finiti con il machete. La loro non è stata una morte
casuale, piuttosto il risultato “di un’atmosfera, della cultura, dell’educazione
che erano state forgiate da mesi…. Non è in quella notte tragica che quegli
studenti hanno scoperto il dramma del loro Paese. Vi avevano già riflettuto
sopra. Il loro comportamento è il prodotto di quella maturazione” , dicono
adesso di loro. È per questo che dei “martiri dell’amicizia” o della
“fratellanza” è stata introdotta la causa di beatificazione, mentre sulle loro
tombe e nella cappella di quel seminario, da allora intitolata a Maria Regina
della Pace, proseguono ininterrottamente i pellegrinaggi dei burundesi che
vengono ad invocare la pace per il loro Paese.
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