giovedì 29 luglio 2010

VI SONO SOLTANTO DUE AMORI: L'AMORE DI SE STESSI E L'AMORE DI DIO


CORPI E ANIME, Maxence Van der Meersch, Rizzoli.
La cappella, bruciata durante la rivoluzione, aveva fatto posto agli uffici dell'economato. Ma nel sotterraneo la cripta c'era ancora, graziosissimo pezzo architettonico con tetto a volte gotiche, fasci di gracili colonnine, mascheroni finemente ritagliati, figure di angioletti alati. Vi avevano installato gli impianti di riscaldamento centrale. Mucchi di antracite ne facevano un antro di tenebre e polvere, ingoiando colonne fino ai capitelli scolpiti e insudiciando di un intonaco nero e corrosivo di carbone e fuliggine. Tubi enormi si snodavano e si avvinghiavano in quell'ombra, come serpi. A terra le caldaie posavano sulle antiche lastre di marmo, un tempo bianche e nere.
La loro acqua rugginosa stagnava sul pavimento, vi formava una fanghiglia grassa. E sulle pietre consunte si indovinavano ancora qua e là le antiche iscrizioni, i nomi delle suore, sepolte sotto le caldaie.
Don Vincenzo errava con devozione mista a profondo sconforto fra quelle rovine. Ed anche Gèraudin, Donat, Ribières e molti dei professori (poichè il medico spesso si accoppia all'amatore d'arte, al collezionista avveduto), andavano ad ammirarvi un particolare di scultura, una testa di donna o di demonio, ancora visibile sotto il nero della fuliggine, lamentando la loro impotenza di fronte al vandalismo amministrativo. Ma la municipalità di Mainebourg era molto anticlericale e non si curava delle cappelle.

mmmmmmmmmm
Norf era anche a corto di personale. Era riuscito a tirarsi su Vanneau. E Michele pure l'aiutava. Ma quando questi si fosse laureato dottore, se ne sarebbe andato, e Norf sarebbe rimasto di nuovo solo, ridotto a contentarsi di gentili "prestazioni". Avrebbe forse potuto ottenere gli assegni necessari per concedersi un aiutante. Ma un capo di laboratorio è pagato ventimila franchi all'anno, un assistente ausiliario novemila, vale a dire tremila meno di un inserviente. L'enunciazione di queste cifre metteva in fuga gli aspiranti. C'era bensì qualche borsa disponibile: ma mancavano i candidati. Vero è che le borse erano al massimo di tremila franchi. E l'estero cercava di attirare i giovani. Dappertutto si allestivano laboratori, officine, centri di ricerca, e agli studiosi venivano offerti onorari elevati, di modo che la miglior parte di essi disertava la patria ingrata.

mmmmmmmmmm

Questo stato di cose era così comune, quasi quotidiano, che a poco a poco si spegneva in Fabiana l'indignazione, la reazione dell'onestà offesa. A lungo andare l'anormalità così perpetuamente ripetuta finisce per imporsi allo spirito come una cosa regolare. Con inquietudine Fabiana sentiva qualche volta se stessa divenire più indulgente, più tollerante, più portata a transigere coi principi della sua prima educazione.
mmmmmmmmmm

E poi soggiungeva spesso: "L'opera così costruita è più solida. Quando si è soli, si ha Dio con ..."
Domberlè vedeva Dio dappertutto. Dio voleva il bene e il male, la sofferenza e la gioia. Tutto serviva, tutto concorreva al miglioramento dell'uomo, al progresso dell'evoluzione. Nulla esasperava tanto il vecchio medico quanto il sentir parlare di caso, di fortuna e di sfortuna.
"Il caso non esiste," asseriva Domberlè. "La fortuna non c'è. Dietro tutto quello che ci succede, c'è una ragione, un fine, c'è Iddio. Mi spiace parlarvi ancora di me, ma non c'è nessuno ch'io conosca meglio di me stesso. Ebbene, se io avessi creduto alla sfortuna, non avrei affatto niente, mi sarei disperato e sarei sotto terra da molto tempo. E insieme con me, molti ammalati che, malgrado tutto, ho aiutato a vivere! Le disgrazie? Ma io le ho avute tutte! (...) Potrei riempire dieci volumi con le mie disgrazie che portano tutte , sempre, un titolo solo: Provvidenza. La buona Provvidenza, che mi ha scosso, trattato duramente, rimesso in piedi, a colpi di randello, protetto miracolosamente e che, alla fine, ha utilizzato tutte le mie disgrazie per salvarmi e per salvare qualche altro insieme con me.

IL LIBRO

Bellissimo. Scritto nel 1943 è un testo profetico, perfetta descrizione di come sarebbe stato il mondo a noi contemporaneo. Credo che fino ad ora sia il libro più bello che abbia letto nel 2010. Mi era stato consigliato tantissime volte ma, per qualche reticenza, non lo avevo ancora letto. Racconta dell'ambiente francese medico e ospedaliero del periodo tra le due guerre mondiali, un ambiente che sembra appartenere ad un'elite, redditizio e che invece ha già al suo interno una profonda crisi: carriere personali, fama, denaro... E il medico di campagna, stile san Pampuri, preoccupato della salute della sua gente, stimato dal popolo, è già in estinzione. Forse la seconda guerra mondiale ribalterà di nuovo i valori ma la società è già scristianizzata. L'autore afferma che l'Europa si fonda su umanesimo e cristianesimo ma è costretto a riconoscere come questo sia continuamente censurato.




lunedì 19 luglio 2010

CHE COSA IMPORTA? TUTTO E' GRAZIA.


DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA, Georges Bernanos, Mondadori

Non c'è pace che in Gesù Cristo.
La prima parte del mio programma è in via di realizzazione. Ho intrapreso a visitare ogni famiglia, almeno una volta per trimestre. I miei confratelli qualificano come stravagante questo progetto, ed è vero che l'impegno sarà duro da mantenere poichè, prima di tutto, non debbo negligere nessuno dei mieie doveri. Coloro che pretendono giudicarci da lontano, dal fondo d'un ufficio comodo, dove ogni giorno rifanno lo stesso lavoro, non possono davvero farsi un'idea del disordine, della sconnessione della nostra vita quotidiana. A malapena bastiamo alla nostra opera regolare, quella di cui la stretta esecuzione fa dire ai nostri superiori: "Ecco una parrocchia bene tenuta". Rimane poi l'imprevisto. E l'imprevisto non è mai da trascurare! Mi trovo, io, dove nostro signore mi vuole? Domanda che mi faccio venti volte al giorno. Poichè il padrone che serviamo non giudica solo la nostra vita, ma la condivide, l'assume per sè. Faticheremmo assai meno a dover contentare un Dio goemetra o moralista.
IL LIBRO
Non c'è un motivo particolare, non avevo mai letto questo libro prima d'ora. E' l'avventura quotidiana di un uomo qualunque e per questo straordinaria. E' la realizzazione del motto di san Benedetto: rendere eroico il quotidiano e quotidiano l'eroico. Leggendo la biografia di Bernanos si capisce che ciò vale anche per l'autore. Capita spesso di meravigliarsi della contemporaneità di alcuni autori del passato. Ci sono riflessioni che sono le stesse di oggi e l'invisibile non è agli occhi di tutti.

P.S. Per giri strani, io e mio marito stiamo dando una mano alla versione inglese di una mostra sul prete missionario, ora santo, Comboni, che sarà prsente al Meeting di Rimini di quest'anno. Anche quella fu una vita straordinaria fatta solo di passi semplici, una risposta a ciò che la realtà chiamava.

ANNO SACERDOTALE
L’Osservatore Romano, 9 giugno 2010
Prima di tutto autenticamente uomini di Julián Carrón
Non dimenticherò mai il contraccolpo avuto durante il ritiro spirituale con alcuni sacerdoti in America Latina. Avevo appena terminato di dire che spesso alla nostra fede manca l’umano, che un sacerdote mi avvicinò. Mi disse che all’epoca in cui era in seminario gli avevano insegnato che era meglio nascondere la sua umanità concreta, non averla davanti agli occhi «perché disturbava il cammino della fede». Questo episodio mi ha reso più consapevole di come può essere ridotto il cristianesimo e dello stato di confusione in cui siamo chiamati a vivere la nostra vocazione sacerdotale. Una volta domandarono a don Giussani che cosa avrebbe raccomandato a un giovane prete: «Che sia innanzitutto un uomo», rispose, suscitando la reazione stupefatta dei presenti. Ci troviamo agli antipodi dell’indicazione data al seminarista: da una parte, il distogliere gli occhi dalla propria umanità, dall’altra, uno sguardo pieno di simpatia per se stessi.
Che cosa risulta dunque decisivo per la nostra fede e la nostra vocazione? Di che cosa abbiamo bisogno? Don Giussani ha più volte indicato nella «trascuratezza dell’io», nell’assenza di un autentico interesse per la propria persona, «il supremo ostacolo al nostro cammino umano» (Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 9). Invece è il vero amore a se stessi, la vera affezione a sé quella che ci porta a riscoprire le nostre esigenze costitutive, i nostri bisogni originali nella loro nudità e vastità, così da riconoscerci rapporto col Mistero, domanda di infinito, attesa strutturale. Solo un uomo così “ferito” dal reale, così seriamente impegnato con la propria umanità può aprirsi totalmente all’incontro con il Signore. «Cristo infatti – afferma don Giussani – si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).
«Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone» ha scritto Reinhold Niebuhr. Può valere anche per noi quando acriticamente subiamo l’influsso della cultura in cui siamo immersi, che sembra favorire la riduzione dell’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici. Ma se l’uomo è davvero ridotto a questo, quale è allora il nostro compito di sacerdoti? A che cosa serviamo? Quale è il senso della nostra vocazione? Come resistere a una fuga dal reale rifugiandoci nello spiritualismo, nel formalismo, cercando alternative che rendano sopportabile la vita? Oppure non sarebbe meglio, obbedendo al clima culturale, diventare assistente sociale, psicologo, operatore culturale o politico? Come ha ricordato Benedetto XVI a Lisbona, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?» (Omelia della Santa Messa al Terriero do Paco di Lisboa, 11 maggio 2010).
Tutto dipende dunque dalla percezione, innanzitutto per noi, di che cosa sia l’uomo e di che cosa corrisponda realmente al suo desiderio infinito. La decisione con cui viviamo la nostra vocazione deriva perciò dalla decisione con cui viviamo il nostro essere uomini. Solo dentro una vibrazione umana autentica possiamo conoscere Cristo e lasciarci affascinare da Lui, fino a darGli la vita per farLo incontrare agli altri. «Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?», si chiedeva pochi anni fa l’allora cardinale Ratzinger e rispondeva: «Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. […] Nell’uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo» (Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 142–143).
Questa certezza che Benedetto XVI testimonia di continuo anche davanti a tutto il male che ci procuriamo o che causiamo agli altri – pensiamo alla vicenda della pedofilia – ci invita a un cammino per la riscoperta e l’approfondirsi della ragionevolezza della fede: «La nostra fede ha fondamento, ma c’è bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi […]: soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l’ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell’Aldilà» (Omelia della Santa Messa al Terriero do Paco di Lisboa, 11 maggio 2010). Solo se sperimentiamo la verità di Cristo nella nostra vita, avremo il coraggio di comunicarla e l’audacia di sfidare il cuore delle persone che incontriamo. Così il sacerdozio continuerà a essere un’avventura per ciascuno di noi e quindi l’occasione per testimoniare ai fratelli uomini la risposta che solo Cristo è al «misterio dell’esser nostro» (G. Leopardi).
Grazie.




giovedì 15 luglio 2010

CAMBIA IL MONDO...



UN PASSATO IMPERFETTO, Julian Fellowes, Neri Pozza
A uno scrittore moderatamente di successo capita di bazzicare gente "di ogni risma", come avrebbe detto la nonna, ma non potevo certo fingere che quello fosse il mio ambiente. La maggior parte dei cosidetti ricchi che frequento dispone di fortune avite. superstiti, sono cioè ricchi che un tempo erano molto più ricchi. Ma le case che sfilavano davanti ai miei occhi appartenevano ai nuovi ricchi, il che è un altro paio di maniche, e trasudavano quel senso di potere che ha sempre avuto un effetto corroborante su di me. Per quanto possa apparire strano, in Gran Bretagna persiste tuttora un atteggiamento snobistico nei confronti dei nuovi ricchi. E non è la destra tradizionalista, come ci si potrebbe aspettare, bensì, paradossalmente, l'intellighenzia di sinistra a esibire la più netta disapprovazione verso chi "si è fatto da sè". Proprio non capisco come ciò possa convivere con il concetto di uguaglianza.

IL LIBRO
E' avvicente: quando si inizia, non si riesce a staccarcisi, ottimo in questo periodo di rilassamento. E' la storia della fine di un mondo generazionale, il passaggio tra gli anni Cinquanta e la generazione successiva, quando i valori su cui si fondava il mondo occidentale, e qui in particolare l'aristocrazia inglese, è messo in crisi da buoni desideri di giustizia e libertà, senza però raggiungere i risultati voluti. Anche questa è un'ottima storia per un film, stile "Espiazione", in cui la moda e la musica sono un ottimo sfondo. Tantissimi i personaggi ma nessuno veramente positivo, c'è sempre una tristezza di fondo.




TERRA DESOLATA

"Ho i nervi a pezzi stasera.
Sì, a pezzi. Resta con me. Parlami. Perché non parli mai?
Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa."
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
"Cos'è quel rumore?"
Il vento sotto la porta.
"E ora cos'è quel rumore? Che sta facendo il vento?"
Niente ancora niente.
E non sai "Niente? Non vedi niente? Non ricordi
Niente?"
Ricordo
Quelle sono le perle che furono i suoi occhi.
"Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?"
T. S. Eliot

sabato 10 luglio 2010

L'IO RINASCE IN UN INCONTRO


I NOSTRI ATTI CI SEGUONO, Paul Bourget, Rizzoli
L'ho rivisto ora quel biglietto, che conservo come una reliquia; esso, dopo il dramma del sagrato di Notre-Dame, costiutisce il più grande avvenimento della mia giovinezza. Anche questo, che mistero! S'incontrano, nel cammino della vita, migliaia di persone che spariscono senza lasciare dentro di noi alcuna traccia fuorchè un'immagine vaga nella memoria. Invece, si trova qualcuno che poteva non venire lì, in quel luogo, a quell'ora; e anche voi potevate non esserci. Ma è venuto, e voi pure, e quell'incontro è una nuova svolta nella storia della vostra vita.

IL LIBRO
Titolo strano che apre a meditazioni. La storia è molto bella, ricca di questi casi, coincidenze, responsabilità e conseguenze che sono tipici della vita di ognuno. C'è un desiderio di fondo di fare della propria vita qualcosa di positivo, qualcosa per cui si meriti di vivere e, nelle prove di ottenere risultati, gli errori abbondano e con loro i tentativi di riscatto ed espiazione. Scritto tra il 1925 e il 1927, il libro rispecchia le teorie politiche e scientifiche dell'epoca e mostra anche quanto l'autore fosse protagonista del suo tempo, quanto approfondisse tramite il suo cammino personale e l'uso della propria ragione la cultura a lui contemporanea. Nella prefazione di Davide Rondoni si afferma che tema dei libri di Bourget è la responsabilità umana che, secondo me, è conseguenza della libertà di scelta di fronte alle circostanze. Il bello e il buono è possibile per tutti.






L'IO RINASCE IN UN INCONTRO
L’effetto Chernobyl

Vorrei iniziare questa nostra conversazione osservando una differenza tra l’attuale generazione di giovani e quella che ho incontrato trent’anni fa: la differenza risiede in una debolezza di coscienza nei giovani di oggi; una debolezza cioè non etica, ma relativa al dinamismo stesso della coscienza.
Non per nulla, dopo tanti anni, abbiamo messo a tema l’influsso nefasto e decisivo del potere, della mentalità comune e dominante - dominante in senso letterale. È come se tutti i giovani d’oggi fossero stati investiti da una sorta di Chernobyl, di enorme esplosione nucleare: il loro organismo strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. È come se oggi non ci fosse più alcuna evidenza reale se non la moda - che è un concetto e uno strumento del potere. Così anche l’annuncio cristiano stenta molto di più a diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la mentalità dominante, la cultura onniinvadente, il potere, realizzano in noi una estraneità rispetto a noi stessi. Si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall’altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione.
La persona ritrova se stessa in un incontro vivo.
Se l’evidenza oggi più convincente sembra essere la moda, dove la persona può ritrovare se stessa, la propria identità originale? Quella che sto per dare è una risposta che non si attaglia solo alla situazione in cui siamo, ma è una regola, una legge universale (da quando e fin quando l’uomo c’è): la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, imbattendosi cioè in una presenza che suscita un’attrattiva e la provoca a riconoscere che il suo «cuore» - con le esigenze di cui è costituito - esiste. L’io ritrova se stesso nell’incontro con una presenza che porta con sé questa affermazione: «Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio, esiste». Perché, paradossalmente, l’originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini (questo è ciò che veramente mette in rapporto con chiunque e non fa sentire estraneo nessuno). L’uomo riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che suscita un’attrattiva e provoca un ridestarsi del cuore, un sommovimento pieno di ragionevolezza, in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo la totalità delle sue dimensioni - dalla nascita alla morte. La persona si ritrova dunque quando in essa si fa largo una presenza che corrisponde alla natura esigenziale della vita: solo così l’io non è più nella solitudine. Normalmente, dentro la realtà comune, l’uomo, come «io», è nella solitudine, da cui cerca di fuggire con l’immaginazione e i discorsi. Questa presenza che corrisponde alla vita è il contrario di un’immaginazione. L’incontro che permette all’io di riscoprire se stesso non è un incontro «culturale», ma vivente; non è un discorso fatto, ma un «fatto» vivente - che, beninteso, può palesarsi anche sentendo qualcuno che parla; quando costui parla, però, è con qualcosa di vivente che l’io è messo in rapporto, non con un’ideologia o un discorso disarcionato dalla forza della vita. Non si tratta, insisto, di un incontro culturale, ma esistenziale. Tale incontro porta con sé due caratteristiche che ne costituiscono l’inconfondibile verifica: introduce nella vita una drammaticità, che consiste nel percepire una provocazione al cambiamento di sé e nel tentare un inizio di risposta, e nello stesso tempo introduce almeno una goccia di letizia, anche nella condizione più amara o nella constatazione della propria meschinità. Insomma, per usare un’altra espressione, ciò che deve accadere perché l’io riscopra se stesso è un incontro evangelico, capace di ricostituire la vitalità dell’umano: come l’incontro di Cristo con Zaccheo.

Don Luigi Giussani (1 marzo 2005)

sabato 3 luglio 2010

EL PUEBLO UNIDO


IL CASO NERUDA, Roberto Ampuero, Garzanti
"...In vita mia ho avuto di tutto, Cayetano, amici, amanti, fama, denaro, prestigio, perfino il premio Nobel mi hanno dato. Ma non ho mai avuto un figlio. Beatriz è la mia ultima speranza, una speranza che ormai avevo sepolto da tempo. Darei tutta la mia vita in cambio di quest'unica figlia."
Ripresero il cammino sotto una pioggerella sottile, mentre le voci dei bambini si affievolivano. "L'immortalità possono dartela solo i figli, Cayetano, non i libri; il sangue, non l'inchiostro; la pelle, non le pagine stampate."

IL LIBRO
A metà tra un romanzo giallo e una biografia, l'autore ci fa conoscere la storia del Cile contemporaneo a Neruda. Non è Isabel Allende ma è un bel libro da leggere e da modo di conoscere parte della storia contemporanea senza pregiudizi evidenti e senza annoiare. Forse si voleva bissare il successo de Il Postino ma questo libro mantiene comunque una sua originalità. A milano è scoppiato il caldo e non ho l'aria condizionata. Appena posso mi siedo all'ombra della terrazza e mi metto a leggere. Il caldo spinge ad oziare, avrei mille cose da fare ma manca la voglia. Credo che aggiornerò le pagine del blog abbastanza frequentemente!

IL TUO SORRISO

Toglimi il pane,
se vuoi,
toglimi l'aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d'argento che ti nasce.
Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d'aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor mio, nell'ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d'improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino al mare, d'autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell'isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l'aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
Perché io ne morrei.

Pablo Neruda