giovedì 28 aprile 2011

ETERNI CONFLITTI


FUGA DALL'INFERNO, Mischa Hiller, Newton Compton Editori
"Sono convinto che se facessero vedere cos'è davvero capace di provocare la guerra, non ce ne sarebbe più nemmeno una sulla faccia della terra. Qualunque soldato diserterebbe seduta stante se vedesse in che condizioni possono ridurlo. L'industria bellica chiuderebbe i battenti. Tutto questo fottuto
ambaradan smetterebbe di esistere." Si accese una sigaretta e scosse la testa. "Be', forse questo non basterebbe a fermare i costruttori di armi", disse sorridendo. "Probabilmente quegli stronzi, quando vedono una roba del genere, si danno grandi pacche sulle spalle e magari offrono un giro di birra a testa." indicò un fotogramma bloccato sullo schermo, un moncone non ancora fasciato, là dove fino a poco prima c'era una mano.

IL LIBRO
L'ho letto d'un
fiato. Riguarda la questione palestinese. Siamo nel 1982, quando a Beirut c'erano i campi profughi, il presidente Gemayel veniva assassinato e l'esercito cristiano falangista compiva una terribile strage tra quel popolo già martoriato, sotto gli occhi acconsenzienti di Israele. Personaggio principale è un ragazzo appena maggiorenne che vuole essere protagonista della storia ma, sconfitto dal male che sembra avere la meglio su tutto, ripiega per una via di fuga, il suo passaporto danese e scopre di poter impegnarsi più a livello personale che secondo uno schieramento politico. Gli eroi non vincono ma non vengono dimenticati, così come un numeroso gruppo di medici, infermieri e fisioterapisti occidentali che ha deciso di condividere la vita dei più deboli.

PERCHE' NON SI DEVE UCCIDERE

Dal “Corriere della Sera” il 9 maggio 2011

Dal libro “Non uccidere” che sta per uscire nella serie “I comandamenti” de Il Mulino (pp. 144, € 12), scritto dal cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, e da Adriana Cavarero, docente di filosofia politica all’università di Verona, anticipiamo la prima parte del capitolo sul significato di “Non uccidere” di Scola.

Angelo Scola

«Non uccidere» è il comandamento che nel Decalogo esprime il valore inviolabile della vita degli esseri umani agli occhi di Dio. Dal punto di vista della coscienza morale razionale e di una riflessione filosofica che cosa vi corrisponde? Che cosa, cioè, della visione di Dio sull’uomo è visibile anche dalla ragione umana? Dio vede nell’uomo la sua immagine; la ragione filosofica è in grado di vedere nell’uomo una dote eccezionale, che lo pone come essere singolare nell’universo: la sua capacità di aprirsi all’orizzonte intero della realtà, con il suo interesse e la sua domanda, la sua intuizione e il suo ragionamento, il suo desiderio e la sua affezione. È da ciò che gli deriva quella capacità di interpretare e trasformare realtà, di produrre forme e cultura, di costruire e abitare mondo, che lo rende così diverso da tutti gli altri viventi e così implicato con tutti gli esseri.

L’uomo è l’essere che stabilisce relazioni in ogni direzione, perché egli stesso è un io-in-relazione e capace di porsi in relazione di pensiero e d’azione con tutti i suoi simili e con la realtà intera. In tal senso l’uomo è centro del mondo, perché il «mondo» (che è ben più di un cosmo quantitativo) esiste solo in ragione del suo centro. Né i ripetuti tentativi di fare dell’uomo una creatura tra le altre, forse un po’ superiore, ma senza l’originalità irriducibile di abbracciare con le sue doti la realtà intera e di «costituire mondo», sono in grado di farlo con coerenza. Chi teorizza la parzialità dell’uomo (il suo essere nient’altro che un pezzo del cosmo), infatti, lo può fare considerando pur sempre una totalità di riferimento che è vista con il pensiero: l’uomo è una parte di un tutto pensato da quello stesso che lo considera solo parte, aggregato fisico, organismo biologico, apparato psichico, funzione sociale, ecc. Chi riduce l’uomo a una parte lo fa inevitabilmente in riferimento a una certa totalità di mondo: il cosmo fisico, il mondo biologico, l’evoluzione, la totalità sociale, ecc.

In altri termini, si può pensare l’uomo come «parte» , ma ci si contraddice pragmaticamente: si dice il contrario di quello che si fa; il pensiero umano che parla dell’uomo come parte lo fa pensando il tutto rispetto a cui l’uomo è parte. È questa la contraddizione su cui si fondano (cioè si invalidano) tutti i riduzionismi che pretendono di definire con le loro categorie parziali il tutto umano. Tale capacità umana è manifestazione di qualcosa di invisibile, eppure potente, cui è possibile dare i molti nomi di cui si è servita la lunga riflessione occidentale, come pensiero, soggettività, trascendentalità, anima, non equivalenti, ma convergenti sull’idea di un nucleo costitutivo l’identità umana in quanto umana, essenziale, intrascendibile, inafferrabile; di cui ci si può disfare solo attraverso una difficilissima operazione di radicale riduzionismo materialistico, il cui esito è di non aver più spiegazione plausibile dell’inequivocabile differenza operativa e culturale dell’uomo.

Questa gloria dell’essere, che è l’uomo, è il luogo in cui si incontrano la visione di Dio e la riflessione umana stessa. Essa è l’oggetto proprio della proibizione di «Non uccidere» . Perché non si deve uccidere? Perché l’uomo è creato «a immagine e somiglianza di Dio» e l’uccisione dell’uomo, oggetto del compiacimento di Dio («Dio vide quanto aveva fatto [con la creazione dell’uomo], ed ecco, era cosa molto buona», Gen 1,31), è affronto e disprezzo di Dio; così risponde la coscienza teologica. Perché l’uomo è portatore di una «dignità incomparabile, senza prezzo» , come pensa Kant; così risponde una tradizione filosofica che ha dato il suo lessico alla cultura moderno-contemporanea della libertà e dei diritti umani.

Ma la ragione del «Non uccidere» richiede un approfondimento, decisivo quanto all’apprezzamento della radicalità della proibizione e al senso della norma. Ciò che non si deve voler uccidere è l’uomo come tale, considerato nella sua identità antropologica propria, cioè, per essere rigorosi, nella sua trascendentalità, che ha una dignità senza prezzo perché è incomparabile ed è tale perché è la condizione di ogni esperienza, di ogni azione, relazione, significato. Come si diceva, essa è la condizione dell’apparire del mondo, cioè della relazione intenzionale e culturale per cui l’uomo apre in torno a sé il mondo, ovvero la realtà in quanto pensata, interpretata, trasformata. Trascendentalità vuol dire pensiero, desiderio, volontà, libertà; è, perciò, anche la condizione di incontro tra gli uomini, delle loro relazioni intersoggettive e socializzanti.

Approfondire il comandamento significa affermare che voler uccidere il tutto antropologico, di cui si diceva, non è possibile senza contraddizione, in un duplice senso. In un primo senso, perché l’uccidere tratta l’identità trascendentale umana come qualcosa che può essere scambiato, barattato con altro o sacrificato per altro. Chi uccide, infatti, è motivato dall’evitare un danno per sé o per altri (e tramite altri ancora per sé). Lo fa per vendicare qualcosa di sé o di altri, per «far pagare» un debito verso di sé o altri, per sacrificare altri a un bene superiore, per immolare altri a un Dio-Padrone… In ogni caso la dignità è equiparata a qualcosa di inferiore a sé o è resa oggetto di qualcosa di superiore a essa; in ogni caso è ridotta a oggetto: la sorgente stessa d’ogni possibile esperienza diventa oggetto misurato e sottoposto a un particolare sentire, quello dell’ira, della bramosia o della vendetta, oppure è reso oggetto dell’interesse anonimo di un progetto storico (il Terzo Reich, il comunismo mondiale, la globalizzazione tecnocratica) o di un Dio così impotente da aver bisogno del sangue di sue creature, ecc.

La violenza dell’uccidere sta essenzialmente in questo scarto di livello, per cui l’umano è oggettivato e l’altro uomo è cosificato; una cosificazione — si noti — di fatto solo immaginata o voluta, perché in realtà impossibile: se l’uomo fosse cosificabile, semplicemente non sarebbe l’essere soggettivo trascendentale che è.

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