sabato 18 luglio 2009

LETTURE POCO IMPEGNANTI

(foto di Claudio Romani)

LA MIA VITA SU UN PIATTO, India Knight, Feltrinelli

Il mio nome è Clara, molto grazioso, e il cognome è Hutt, che grazioso non è affatto, sebbene mi permetta mi permetta di pensare a me come a Jabba the Hutt (ndr. un personaggio di Star Wars) nei momenti in cui mi detesto con maggiore intentsità. E questa è una cosa utile. Ho due bambini: Charlie, di sei anni, e Jack, di tre. Ho un marito, Robert, che costituisce un mistero (c'è qualcuno che sappia effettivamente cosa passa per la testa del proprio marito, o sono solo io a non saperlo?), per quanto molto attraente. Collaboro part time come scrittrice a una rivista, ho una grande casa, dei bei vestiti e delle amiche che non puzzano di vomito, più qualcuna che invece sì, puzza. Ho trentatre anni. E a volte mi sveglio con la subdola sensazione che la mia vita non possa essere tutta qui.

IL LIBRO

E' come Bridget Jones dopo otto anni di matrimonio. Divertente ma molto lontano dalla realtà. Innanzitutto l'ambiente circostante: upper class lontano da ogni crisi domestica. In secondo luogo il divorzio descritto: indolore. Il tutto scritto maledettamente bene, considerando soprattutto che questa è la sua prima opera. E' un bel libro estivo, qualche dose di umorismo e nulla di particolarmente profondo. Che anche i ricchi piangano, non è proprio un credo assoluto! Soprattutto quando i problemi e le crisi sono dati più dalla noia che dall'essere impegnati con la realtà. Ho cercato la biografia dell'autrice e ho scoperto che il libro rispecchia un po' la sua vita: uno dei suo patrigni è addirittura il famoso architetto Norman Foster! Nata nel 65, ha avuto tre figli e il più piccolo ha una sindrome cromosomica, di quelle che conosci solo se ci sei dentro e al cui proposito ha aperto un blog sul Times on line, intitolato Isn't she talking yet?

LA GENERAZIONE NE' NE'
Il maestro D’Orta: oggi Pinocchio e Lucignolo non chiedono teorie, ma l’esperienza delle cose.

La chiamano “generazione né-né”, sulla falsa riga di quella che in Spagna viene detta Generación ni-ni magari con la speranza che l’inventore di questa nuova locuzione passi alla storia. Il termine riassume la non intenzione né di studiare né di lavorare e dovrebbe descrivere lo stato d’animo di una grossa fetta di giovani che vivono l’attuale periodo di crisi economica e di valori. Un atteggiamento lassista, rinunciatario e inconcludente, privo di un orizzonte professionale ed esistenziale che sembra sempre più prendere piede fra le fila delle nuove leve. Per quanto riguarda il primo “né”, ossia la non voglia di studiare, di frequentare una scuola e diplomarsi, abbiamo chiesto a un esperto e famoso maestro, qual è Marcello D’Orta, di aiutarci a comprendere quanto di vero ci sia in questa denuncia e quali possono essere le “vie d’uscita”, il metodo per far sì che i giovani possano tornare a interessarsi allo studio.

Maestro D’Orta, di colpo i giornali si sono accorti che non è bello andare a scuola?

Credo che in nessun’epoca sia mai “piaciuto” andare a scuola, ma almeno una volta c’era la promessa di un lavoro. I nostri genitori qui a Napoli dicevano «se non ti prendi il “pezzo di carta” da grande non potrai fare nemmeno lo spazzino». E credo fosse un monito diffuso in tutta Italia se non in tutto il mondo. Ormai sono anni che si è capito che il lavoro non è consequenziale al fatto di essere andati a scuola. Prevale l’istintività: non appena un giovane si accorge che molte persone, pur non essendo passate neanche per sbaglio da una scuola, hanno un’occupazione e un reddito più che buono, si tuffano a pesce nel mondo del lavoro, sempre che lo trovino.

Nella sua esperienza di maestro ha mai riscontrato cambiamenti generazionali in questo senso?

Come dicevo, c’è sempre stato un rifiuto istintivo nei confronti dell’istituzione scolastica. Però qualche giorno fa mi sono imbattuto in questa frase letta su un giornale: «probabilmente oggi Pinocchio e Lucignolo non andrebbero più nel Paese dei Balocchi, ma resterebbero a scuola». È ovviamente una provocazione, ma è molto significativa rispetto a quanto accade nelle odierne aule scolastiche. Più che le generazioni è la scuola ad essere radicalmente cambiata. Ha perso il proprio prestigio e, soprattutto, la propria autorità, cosicché andarci non appare più così gravoso come un tempo. Ma nemmeno appare più utile. Una volta il maestro era un Maestro. Interrogava, dava le note, bocciava, ma insegnava anche qualcosa. Ora, alla faccia delle bocciature di quest’anno, è tutto percepito nell’inutilità. Anche le stesse bocciature rischiano di essere una pagliacciata perché nove volte su dieci il Tar dà ragione ai genitori che fanno ricorso. In questo clima causato, è doveroso dirlo, dal disastro del ’68, è veramente difficile riuscire ad insegnare qualcosa.

È anche difficile appassionare, a quanto pare. Qual è il metodo migliore per infondere in uno studente l’interesse per una materia scolastica?

Occorre chiarire anzitutto una cosa: gli uomini in sé amano il sapere. Non mi è mai capitato di riscontrare il contrario in tanti anni di esperienza. I ragazzi, anche i bambini, amano imparare. Non è vero il cliché che dipinge i giovani come una massa di disperati che non ne vogliono sapere di niente. Il problema è che questa aspettativa di conoscere viene continuamente tradita sotto due versanti: da un lato nell’assenza di un riferimento certo e dall’altro nella riduzione della conoscenza a nozionistica. Questi due fattori fanno sì che la scuola sia vista in negativo. Io sono un seguace di Gianni Rodari quando domanda: «perché imparare piangendo quando si può farlo ridendo?». Quindi da un lato occorre un maestro che sia davvero concepito come un’autorità, dall’altro un metodo che “vivifichi” la nozione.

Come si traduce concretamente questa indicazione?

In termini di esperienza. Chiediamoci perché esistono i programmi di Piero e Alberto Angela. Probabilmente perché da giornalisti hanno un modo di proporre argomenti e questioni che manca alla gran parte degli insegnanti. Ma si può parlare qui a Napoli dei Borbone senza portare i bambini a vedere la Reggia di Caserta?
Faccio un esempio. Ad Ancona esiste un “museo tattile” che reca al suo interno le riproduzioni di opere d’arte dal periodo dell’Antico Egitto ai giorni nostri. Questo museo fu creato per iniziativa di associazioni di non vedenti i quali, impediti per ovvie ragioni dal toccare le opere d’arte, hanno voluto ricrearle per comprenderne la foggia. Da questa idea semplice, ma ricca di interesse oggettivo, è nato un museo che ha riscosso e continua a riscuotere un grandissimo successo. Insomma la voglia di sapere c’è ad ogni età e ad ogni condizione, se viene a mancare è sempre per colpa di una delusione.

Oltre alla delusione nello studio c’è però anche una scarsa aspettativa nei confronti del futuro. In effetti la disoccupazione esiste. Non crede che un’educazione come si deve dovrebbe anche insegnare a non scoraggiarsi aspettando che un aiuto piova dal cielo?

Assolutamente. Il problema è che oggi in famiglia i ragazzi sono iperprotetti. La famiglia li mantiene, un po’ perché la società non dà effettivamente grandi prospettive, un po’ anche perché “ci marciano”. Credo che in questo senso il compito ultimo della scuola non è tanto quello di istruire, ma quello di educare, assecondando il desiderio di sapere ma anche quello di diventare uomini. La conquista segue sempre una lotta.
Il problema è che le due grandi istituzioni su cui dovrebbe reggere ogni società, e cioè la famiglia e la scuola, oggi purtroppo si stanno sfaldando: nel migliore dei casi c’è il papà-uomo e la mamma-donna. Per il resto l’orizzonte familiare sta diventando confuso tanto quanto quello scolastico.

Un’ultima domanda sulla sua esperienza locale. Oltre a quanto ha detto quali altri problemi affliggono il Sud nel campo educativo?

Nel caso specifico di Napoli le cose peggiorano perché la camorra è molto attenta all’evasione scolastica dei ragazzi. Un bambino di 9 o 10 anni sa benissimo che solo facendo il “palo” per gli spacciatori guadagnerà un bel po’ di soldi. E sa ancora meglio che gli spacciatori per i quali fa il lavoretto incassano in un giorno quello che suo papà percepisce in 15/20 giorni di lavoro. Se non si antepone un ideale forte a questa situazione, è ben difficile che facendosi via via adulto resista alla tentazione di seguire una strada non proprio ortodossa.



P.S. Ho conosciuto ad un corso di aggiornamento la sorella del maestro D'Orta, una maestra anche lei: impossibile non notarla, una potenza di opinioni!

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