mercoledì 17 luglio 2013

PASSATO REMOTO

LA DONNA CON GLI OCCHI DI SMERALDO, Stacia M. Brown, Piemme
"... Tra qualche mese i nostri sedicenti "santi" della Camera dei Comuni vareranno una delle loro minacce: l'adulterio sara' punibile con la morte. Lo sapete, vero? Che una legge cosi' e' probabile, ora che i Puritani tengono le redini del governo?". Si schiari' la gola; sentiva la nostalgia dei tempi di re Carlo. "Percio' non dimenticatevi di recitare le preghiere della sera, signore, perche', se tutto questo dovesse ripetersi in un altro momento, non ve la cavereste cosi' a buon mercato. Potreste finire anche voi sul patibolo, se cosi' venisse deciso." Bartwain aveva imparato che uno dei vantaggi di arrivare a sessant'anni era che a guardare bene dentro le cose - o anche a guardarle bene a posteriori - si vedeva che la vita e' fatta da un limitato numero di storie. Queste storie giravano, giravano in cerchio e si ripetevano all'infinito. Non c'era niente di nuovo, assolutamente niente di nuovo sotto il sole; persino il sole era annoiato.
IL LIBRO
Un romanzo storico, ben documentato ma che riguarda solo un aspetto particolare dell'epoca descritta. Lo spunto e' la tesi di laurea dell'autrice: la situazione legale delle ragazze madri nell'Inghilterra puritana. Manca pero' l'appassionare il lettore alla vicenda, anche la storia d'amore non convince fino in fondo e la figura del testimone, molto originale e ben pensata, non raggiunge un'umanita' piena. Comunque imparare la storia attraverso i romanzi e' sempre un'ottima idea.

La croce di oggi che ci fa inginocchiare

John Waters Testimonianza

18/05/2013 - La testimonianza durante l'incontro del Papa con i Movimenti ecclesiali

Amici miei, viviamo in un tempo di menzogna. In passato, l’uomo lottava per la perfezione, sapendo che essa non era raggiungibile in questo mondo. Guidato da una fede certa in un Creatore amorevole, dal quale restava dipendente, l’uomo tendeva a raggiungere le stelle, senza illudersi di poterle toccare, ma capendo che l’atto stesso del tendere a raggiungerle gli permetteva di essere pienamente se stesso.

Oggi l’uomo lotta per l’onnipotenza credendo che essa si possa raggiungere. Per questo l’uomo si sente oppresso dalla solitudine, perché ogni cosa dipende solo dal proprio sforzo personale.
La delusione che ne nasce ci affligge tutti. Invade le nostre menti e cambia il nostro modo di pensare e di sentire. E talvolta abbiamo l’impressione – a dispetto di noi stessi – che non dovremmo aver bisogno di Dio. Voglio sottolineare, non che non ne abbiamo bisogno, ma che NON DOVREMMO aver bisogno di Lui.

L’uomo ha costruito il proprio mondo all’interno di quello, misterioso, donatogli da Colui che fa tutte le cose. E questo mondo fatto dalla mano dell’uomo ha delle caratteristiche strane, spesso contraddittorie. Ci fa sentire più sicuri, anche se meno fiduciosi; più intelligenti anche se più vicini alla disperazione. Ci mette addosso un senso di onnipotenza, anche se non ci siamo mai sentiti più impotenti.

Questa è la storia della mia vita, una vita vissuta dentro la falsa realtà che l’uomo ha costruito per sentirsi sicuro.

Da bambino, ho camminato con Cristo per le strade del mio paese. Parlavamo, andando, di tutto ciò che esisteva e di tutto ciò che sembrava possibile. Non c’era bisogno di “credere”. Io CONOSCEVO Cristo, e non c’è bisogno di “credere” nelle cose che conosci. Lui era con me sempre – compagno, fratello, padre, protettore…

Nella mia adolescenza, ho scoperto la realtà fatta dall’uomo e la sua versione della libertà, così diversa dalla libertà che avevo sperimentato da bambino. In qualche modo intuivo che questa nuova libertà sembrava escludere la possibilità di continuare a camminare con Cristo – che c’era una scelta da fare. Anche se non era quello che desideravo, percepivo che per andare avanti nel mondo moderno avrei dovuto staccarmi da Lui. E così feci – con tristezza, con vergogna, ma anche con molti alibi e autogiustificazioni.

Così mi sono gettato in questo grande viaggio di libertà.

Per un certo periodo, mi è sembrato evidente che avevo fatto la scelta giusta. Mi sentivo proprio libero. Ma a poco a poco mi rendevo conto che queste nuove libertà non mi soddisfacevano. In qualche caso trovavo che esse erano causa di grande sofferenza. E in un caso particolare – la mia esperienza con l’alcol – queste supposte libertà mi hanno gettato in ginocchio.

Mi hanno gettato in ginocchio, in tutti i sensi, per fortuna.

Forse era necessario che io facessi un’esperienza “estrema” di libertà per farmi percepire l’errore che avevo compiuto. Attraverso l’intercessione di compagni di sventura, di persone fuggite come me dalla stessa incomprensione della libertà – che avevano già scoperto qualcosa della vera natura della libertà – sono stato re-introdotto all’idea che ero una creatura. Questi nuovi amici mi hanno mostrato che io dipendevo da qualcosa di infinitamente più grande di qualunque cosa io potessi trovare nel mondo fatto dall’uomo. Da questi amici ho imparato che io possedevo un desiderio infinito di questa infinita Grandezza.

La natura dell’uomo e’ una continua domanda. Tu e io siamo fatti di desiderio. Non siamo fatti per accontentarci di una soddisfazione timida e fiacca. Siamo parte del Mistero che fa ogni cosa possibile! Questo è il motivo per cui Gesù è venuto fra noi: per mostrarci tutto quello che la vita umana può essere.

Tutto questo ho imparato dagli amici che ho incontrato e che mi hanno aiutato a portare il peso di questa croce così attuale, una croce fatta di schiavitù e guarigione.

E insieme ho imparato che il desiderio della Grandezza di Dio non era un bel concetto astratto, ma un fatto al centro della mia struttura e della mia natura. Ritornando al punto di partenza, ho indagato su di me e sul mio posto nel mondo, e ho scoperto che quei giorni di innocenza, quando camminavo con Cristo lungo le strade del mio paese, bene, quelli erano stati i momenti della mia vita nei quali il mio essere era stato più profondamente in armonia con la mia natura e la mia struttura.

È stata una scoperta stupefacente.

Per molti aspetti uno scandalo.

Ma è stata anche una liberazione Dopo un viaggio doloroso potevo ancora dire la parola “Cristo” come qualcosa di vero riguardo a me. Potevo ancora accostarmi a quella figura che pazientemente mi attendeva, non per un desiderio di riconciliazione sentimentale o pieno di rimorso, ma avendo imparato che in quella Persona, in quel rapporto, stava il fondamento della verità su di me.

In quei giorni ho imparato che non ero fatto per essere solo. O meglio, che non ero fatto per credere di essere solo – perché qualunque cosa io possa dire, Lui è comunque con noi.

Vi parlo della mia esperienza della realtà. Racconto fatti, cose che sono accadute e continuano ad accadere, parlo quindi di un contesto sperimentabile. Questi fatti sono veri per la mia vita come il fatto che oggi è sabato.

Questo mondo fatto dall’uomo, con le sue aspirazioni, è per molti versi positivo. Dentro di esso, siamo più sicuri e più comodi di quanto potremmo esserlo altrove. Ma il mondo fatto dall’uomo ci tiene nascosta la natura misteriosa della realtà, compresa la realtà che rimane dentro di noi e che ci definisce. Questa realtà interiore è pienamente accessibile solo attraverso l’incontro con questa Persona che chiamiamo Cristo.

Conoscere Cristo non ci richiede di volgere le spalle alla curiosità, al progresso, all’illuminismo, alla libertà. Al contrario, ci chiede di guardare più profondamente dentro la realtà, per vederne la vera natura.

San Giovanni ci dice che, preannunciando la prima Pentecoste, Gesù disse: “In quel giorno saprete che io sono nel Padre, e voi in me, e io in voi” (Gv 14,20).

Sono arrivato a vedere queste parole come una descrizione letterale della mia realtà. Non sono solo questa persona che ha il nome John. Io sono anche un Altro – Colui che mi fa, e col quale esisto in un rapporto che io trascuro, a mio rischio e pericolo.

Conoscere Cristo è conoscere me stesso, capire come sono fatto, e diventare libero in questa conoscenza – perché non potrei diventare libero in nessun altro modo.

 

martedì 9 luglio 2013

BATTITO D'ALI

CENTO PAGINE, Cyril Massarotto
"Sai, se dovessi scrivere il libro della mia vita, sento che scriverei le cose diversamente da come sono andate. Avrei un'esistenza diversa. Devo essere onesta con me stessa, so bene che non mi portero' grandi gioie nella tomba. E soprattutto so che e' troppo tardi per averne altre. Allora, da parecchio tempo, mi accontento di quelle piccole. Di piccole gioie..."
"E di piccoli ricordi."
"Ma che cosa avrebbe voluto fare? Cosa bisogna fare per conquistarsi dei grandi ricordi?"
"E' molto semplice: per conquistarsi dei grandi ricordi, non bisogna guardarsi indietro."
"E' contradditorio, nonna..."
"Al contrario, e' molto logico!" Ascoltami bene: i tuoi ricordi sono davanti a te. Piu' tardi, quando avrai la mia eta' e sara' troppo tardi per costruire, potrai voltarti indietro e vedere cos'hai costruito di grande e di bello... E tutto questo ti riempira' il cuore. E' il mio migliore augurio. Cosi' forse non te ne andrai vuoto. Vuoto come me."
I suoi occhi si sono appannati. Anche i miei. mi guarda e io non oso prenderla tra le braccia.
Sono un coglione.

IL LIBRO
Ci sono nella letteratura francese contemporanea una leggerezza e un'eleganza nel raccontare le storie che sono davvero uniche. E le ritroviamo in questo libro, breve ma dalla trama originalissima, toccato lievemente da un battito di magia ma profondissimo nel descrivere i rapporti sociali nel nostro secolo.



Una famiglia seguita dal Banco Alimentare scrive questa lettera:
Sono le 2 di notte e come sempre non riesco a dormire! Mi trovo davanti a questo foglio dove vorrei cercare di scrivere ma non so se riuscirò! Vorrei sfogare le mie emozioni, ma è molto difficile esprimerle dal viverle. Da quando mio marito è partito ho perso il sorriso, sono trascorsi ormai 4 mesi, al principio mi sono torturata piangendo notte e giorno x la preoccupazione e perché non riuscivo ad accettarlo nonostante l'avevo presa positivamente pensando che era una Grazia di Dio per farci sistemare le cose. I mesi sono trascorsi e mi sono ritrovata sempre più stanca, triste e demoralizzata, ho sbagliato lo so! Però vivere questa situazione è devastante. Io e mio marito non ci siamo mai separati da 20 anni che siamo insieme x cui la lontananza, tutte le responsabilità sulle mie spalle, il lavoro e soprattutto la bimba che è in una fase particolare della sua eta' mi hanno distrutta (questa è l'età più bella e più brutta! Imparano tante cose ma hanno anche bisogno di tante attenzioni). Mio figlio mi dà tanta gioia, voglia di vivere e la forza di andare avanti ma nonostante questo la stanchezza è molta. Ci sono giorni che crollo, ho la mente confusa, stanca mi sono fatta prendere dalla negatività, tristezza e depressione. In questi giorni non riesco più a rialzarmi e così affido la mia Vita a chi l'ho sempre affidata e cioè a Dio. Prego tutti i giorni e poi vado in chiesa, dove mi dico "alzati e cammina" esco e mi sento caricata con tutta la forza di riprendermi. Ho dovuto sempre affrontare difficoltà e sofferenze per ottenere le cose desiderate però Dio non mi ha mai abbandonata, mi ha sempre protetta, accompagnata, perdonata e protetta. Mio marito è molto stanco, depresso e non ce la facciamo a darci forza l'uno con l'altro. Siamo riusciti anche a litigare così lontani per la troppa rabbia che abbiamo dentro è una prova troppo difficile! L'altro giorno parlavo con la mia amica del banco e le ho detto che sono troppo stanca in questo momento; non avevo la lucidità neanche verso Dio, l' ho detto ma non l'ho mai pensato, io senza fede non posso vivere. Oggi finalmente mi sono risollevata e mi sento meglio, so che quando mio marito tornerà non avremmo risolto ancora tutti i nostri debiti però c'e' anche l'amore che ci da forza. Dio ci mette davanti a delle prove e noi dobbiamo superarle x amor suo. Stasera io e mio marito abbiamo parlato che a luglio è il nostro anniversario, lui tornerà a settembre però ci piacerebbe festeggiare facendo una piccola messa per manifestare la nostra gratitudine, il nostro sacrificio, il nostro amore e riprometterci delle cose davanti a Dio. Non so se poi questa cosa andrà in porto però mi ha ridato la forza di sopportare ancora i mesi che verranno e se lo faremo vorrei tanto che ci fosse la mia cara amica del banco a farmi da testimone perché lei crede in questi valori come ci credo io. Non so dire come andranno le cose, so solo che Dio c'e ' sempre stato c'è e ci sarà sempre e io senza di lui non posso vivere. Grazie infinitamente Dio di tutta la mia vita, l'ho sofferta ma io ho sempre detto che ho un protettore che gli altri non hanno, DIO che è unico!
 
 
 

venerdì 28 giugno 2013

FEDE, SPERANZA E CARITA'

QUELLO CHE RESTA, Tracy Kidder, Piemme
Esistono vari gradi di solitudine, mi disse una volta Deo. La peggiore, secondo lui, era quella di una persona povera "oppressa dalla malattia": "Non puoi permetterti di andare dal dottore. Non puoi nemmeno parlare di come ti senti, perche' saresti considerato un debole. Cosi' la sofferenza diventa la tua compagna." E poi c'era la solitudine che aveva trovato spesso a New York, quella di chi ha l'impressione di essere l'unico a comprendere il dramma dei malati indigenti del proprio paese di origine, a capire qualcosa di fondamentale che nessuno intorno a lui affronta completamente.
(...)
Chiaramente Sharon era una persona fuori dal comune, e il fatto che Deo l'avesse incontrata per caso facendo consegne era stata una bella fortuna, forse addirittura - mi venne da pensare in sua presenza - un segno della Provvidenza.
In Se questo e' un uomo, Primo Levi scrive: "Oggi io penso che, se non altro per il fatto che Auschwitz e' esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza." Ma con tutti gli orrori che aveva patito Deo, il numero di sconosciuti che lo avevano aiutato appariva notevole: la donna hutu presso il confine ruandese, Muhammad il facchino, Chukwu, James O'Malley, e soprattutto Nancy, Charlie e Sharon. Non esisteva un programma di assistenza per gente come Deo. Pensai alla porta che aveva lasciato aperta a Mutaho. "Si vede che qualcosa lo proteggeva" pensai, senza dubbio perche' ero in compagnia di Sharon. E quel pensiero non mi piacque.
"Una delle cose che ho notato leggendo i resoconti del genocidio" le dissi. "e' che la gente afferma: "Dio mi ha risparmiato". Ma non sono sicuro che questo modo di vedere e' giusto. E tutti quelli a cui hanno mozzato la testa?"
"Io ho una teoria" ribatte' lei. "Tanto tempo fa mi sono detta: "Noi siamo infinitamente amati per ogni frazione di tempo che abbiamo, per qunato piccola." E alla fine non e' tragico morire, a qualunque eta'. Anche nella piu' immane tragedia, penso che l'unica tragedia sia il male, e Dio non vuole alcun male. Che la sentiamo o no, siamo circondati da questa presenza amorevole - ai bambini parlo del Buon Pastore, penso sia un'immagine potenete per loro, ma anchwe quella della vite e dei tralci e' bella - che copre ogni secondo di ogni giorno. Per tutti."
 
IL LIBRO
L'autore e' un premio Pulitzer e la storia e' una storia vera. Racconta la vita di Deo, studente di medicina che scampa a due genocidi, in Burundi e in Ruanda, si ritrova "miracolosamente" e senza niente negli Stati Uniti, dove una serie di incontri diventa per lui l'occasione di una nuova vita. Un susseguirsi di fatti gravissimi e dolorosissimi, a cui nemmeno la psicologia americana, trovandosi impreparata, e' in grado di rispondere, fatti che porteranno ad un bene piu' grande. Il male non e' l'ultima parola sull'uomo e la storia narrata in questo libro ne e' la testimonianza.
 
40 MARTIRI DEL BURUNDI
 

Servi di Dio 40 Seminaristi Martiri Burundesi Allievi del Seminario di Buta
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+ Buta, Burundi, 30 aprile 1997
Il 30 aprile 1997 vennero assassinati 40 giovanissimi allievi del Seminario di Buta (diocesi di Bururi), appartenenti alle etnie hutu e tutsi, per non essersi voluti separare gli uni dagli altri.Jolique Rusimbamigera, studente nel Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al tragico massacro. Un anno dopo rese la seguente testimonianza:"Erano tantissimi, mi sono sembrati cento. Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci... Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall'altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci...Ma noi restavamo raggruppati! Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l'ordine: "Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi". I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti... Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio".


Dopo i martiri per la fede, quelli della purezza e della carità, dal 30 aprile 1997 abbiamo anche i “martiri dell’amicizia”. In quella data, infatti, 40 seminaristi del Burundi sono stati massacrati in nome dell’amicizia e della fratellanza che volevano difendere a tutti i costi, offrendo così una testimonianza preziosa per il nostro tempo, ancora caratterizzato dalla divisione etnica, dall’odio razziale e dalle discriminazioni. La “Svizzera dell’Africa” (come un tempo era considerato il Burundi) negli Anni Novanta è attraversata da profondi e sanguinosi scontri tribali, che oppongono la maggioranza etnica prevalente degli Hutu ai minoritari Tutsi. Scandalosamente ciò avviene in un paese al 99% cristiano e per oltre il 75% cattolico. Inevitabile che la situazione dell’intero paese si rifletta anche nelle scuole e nei seminari, con una rigida suddivisione dei dormitori, degli spazi di gioco e delle aule tra le due etnie. Mentre molti istituti devono chiudere i battenti per le forti tensioni interetniche, il seminario di Buta, nel sud del Burundi. diventa un’isola felice e un concreto esempio di serena convivenza, grazie al nuovo rettore che lavora molto per abbattere le frontiere e per creare un clima di amicizia tra gli studenti. Il suo sapiente accompagnamento spirituale riesce pian piano a far superare il clima di odio e di vendetta che si respira ovunque. Inutile dire che, se da un lato l’esperienza di questo seminario dimostra con i fatti che l’amore di Cristo è più forte delle barriere razziali, dall’altro finisce per rappresentare il più solenne smacco per i “signori della guerra”, che proprio sull’impossibilità dell’intesa tra hutu e tutsi fondano il loro infernale progetto di violenza e di morte. “Dio è buono e noi lo abbiamo incontrato”, cantano e ripetono i seminaristi, al ritorno da un ritiro nella loro ultima Pasqua che ha fornito basi ancor più solide alla loro spiritualità. In un clima surreale, con il seminario costantemente presidiato dai militari tutsi, sotto la martellante istigazione alla violenza propagandata dalla televisione, con le notizie a raffica di massacri e genocidi della popolazione civile che fanno vivere in un clima di costante terrore e di preoccupazione per la sorte delle loro famiglie, i seminaristi cercano di farsi vicendevolmente forza e coraggio, cercando di mantenere pressoché inalterato il ritmo delle loro attività e soprattutto la loro unione, al di là dell’odio etnico che la politica cerca di instillare. Tutto questo fino all’alba del 30 aprile 1997, quando i ribelli hutu, ubriachi e drogati, irrompono nel dormitorio in cui tutti i seminaristi si sono rifugiati: stanno attuando non solo un’operazione di rappresaglia e di pulizia etnica, piuttosto vogliono dimostrare come sia stata fallimentare l’idea di far convivere le due etnie, convinti come sono che l’esperimento non possa reggere di fronte alla minaccia di morte. Per questo ordinano ai ragazzi, armi in pugno, di dividersi in due gruppi, Hutu da una parte e Tutsi dall’altra. I ragazzi non si muovono: non perché paralizzati dalla paura, piuttosto perché convinti che di fronte all’amicizia non si possono fare distinzioni etniche: l’amico resta tale, indipendentemente da come te lo vogliano rappresentare. Scornati e forse disorientati dalla inaspettata reazione, gli assassini scatenano l’inferno, mentre i ragazzi, tutsi e hutu indifferentemente, restano abbracciati tra loro, si sostengono a vicenda, si aiutano come possono. “Padre, perdonali, perchè non sanno quello che fanno”, li sentono anche sussurrare Alla fine, su quel pavimento, immersi nel loro sangue, si contano 40 morti: tutti ragazzi tra i 15 e i 20 anni, crivellati di colpi, sventrati dalle granate, finiti con il machete. La loro non è stata una morte casuale, piuttosto il risultato “di un’atmosfera, della cultura, dell’educazione che erano state forgiate da mesi…. Non è in quella notte tragica che quegli studenti hanno scoperto il dramma del loro Paese. Vi avevano già riflettuto sopra. Il loro comportamento è il prodotto di quella maturazione” , dicono adesso di loro. È per questo che dei “martiri dell’amicizia” o della “fratellanza” è stata introdotta la causa di beatificazione, mentre sulle loro tombe e nella cappella di quel seminario, da allora intitolata a Maria Regina della Pace, proseguono ininterrottamente i pellegrinaggi dei burundesi che vengono ad invocare la pace per il loro Paese.


lunedì 17 giugno 2013

SUPERAMENTO DEL LIMITE

DREAM RUNNER, IN CORSA PER UN SOGNO, Oscar Pistorius, Rizzoli
Se Dio mi chiedesse: "Oscar, posso ridarti le gambe: le vuoi?" io dovrei rifletterci. Non risponderei subito di sì. Perchè in realtà non mi sento affatto fregato dalla vita. Se avessi avuto le gambe non sarei diventato l'uomo che sono, credo non avrei avuto questo stimolo a superare me stesso e diventare un atleta. Sarei come un sacco di altri ragazzi, che si impigriscono. Forse non avrei scoperto il mio potenziale e avrei avuto una vita più ordinaria. (...)
C'è un pensiero che per me è molto importante: "Non sono le nostre disabilità che ci rendono disabili ma le nostre abilità che ci rendono abili."

IL LIBRO
E' un'autobiografia molto leggera dal punto di vista artistico ma molto vera dal punto di vista di chi la racconta. Per chi lavora nella scuola come me ed ha contatto diretto con gli alunni che hanno diritto all'insegnante di sostegno, questo libro è uno stimolo continuo a spronare chi si ha davanti. Il limite si chiama limite perchè va superato e Pistorius lo testimonia. Se non fosse stato per il suo grande desiderio e forza di volontà, che gli derivano certo dall'educazione familiare ricevuta, nessuno lo avrebbe visto alle Olimpiadi di Londra. Mi piace quando dice che è da quando è piccolo che vive la sua mancanza di arti con umorismo. Racconta che, quando i bambini che non lo conoscevano gli chiedevano delle sue gambe strane, rispondeva di averle comprate al Toys'r'us. Ne ho letto parte ai miei alunni anche se sono piccoli, perchè da lui si può imparare molto e ho utilizzato la sua infanzia come paragone per la propria storia personale. Dovevo scegliere un modello asettico (ho in classe un bambino adottato a cui mancano i riferimenti e la documentazione dei tre primi anni di vita e una bambina che ha passato la prima infanzia in ospedale) e mi sono detta. "Perchè non lui?" Infatti, mi metto all'opera, inizio coi bambini (entusiasti) e dopo una settimana Pistorius viene arrestato!!!! Grande flop educativo. Morale: se devi scegliere un esempio, meglio sceglierne uno morto!!!

ODE: intuizioni di immortalita' nei ricordi dell'infanzia
 

Se niente puo' riportare l'ora
di splendore nell'erba, di gloria nel fiore;
noi non piangeremo, piuttosto troveremo
forza in cio' che resta;
nella simpatia delle origini
che essendo stata deve essere sempre:
nei pensieri consolanti che nascono
dell'umana sofferenza;
nella fede che guarda olter la morte,
negli anni che rendono la mente filosofica.
William Wordsworth




martedì 14 maggio 2013

UN TOCCO DI MAGIA

MARINA, Carlos Ruiz Zafon, Mondadori
"Ci chiedevamo se poteva parlarci di Michail Kolvenik."
"Potrer ma non vedo perche' dovrei farlo" taglio' corto il dottore. "Se ne e' parlato fin troppo a suo tempo e sono circolate un muccio di bugie. Se la gente pensasse un quarto di quanto parla, questo monod sarebbe il paradiso."
"Si', ma noi siamo interessati alla verita'" puntualizzai.
(...)
"Michail, ti ricordi del giorno in cui mi chiedesti la differenza tra un medico e un mago? Ebbene, la magia non esiste. Il nostro corpo comincia a morire nel preciso istante in cui nasciamo. siamo fragili. Creature passeggere. Cio' che resta di noi sono le azioni, il bene e il male che facciamo ai nostri simili..."
 
IL LIBRO
Potrebbe essere un libro per ragazzi, con quel pizzico di noir che piace ad alcuni, oppure un libro apparentemente leggero per adulti. Lo stesso autore in prefezione scrive che questo sarebbe stato l'ultimo libro scritto di questo genere. Il personaggio che narra gli eventi ricorda un po' il dottor Watson, apparentemente un comprimario ma senza il quale la storia non avrebbe un testimone importante. Citando liberamente Susan Sarandon nel film "Ti va di ballare", la vita di ognuno cerca un tetimone a cui mostrarsi.
 







 
L'accidia di Pigi Colognesi -  lunedì 13 maggio 2013

Penso che ormai ci sia pochissima gente che si confessi del peccato di accidia. Eppure essa va a costituire (assieme a superbia, avarizia, invidia, ira, lussuria e golosità) l'elenco dei sette «vizi capitali» e sulla sua specifica pericolosità hanno riflettuto parecchi santi. Il significato della parola - in consonanza con il peccato che descrive e coi gesti che lo manifestano - non è schematicamente definibile. L'accidia si avvicina molto ad un'amara tristezza che non ha motivazioni precise, ad una insoddisfazione vaga e generica che preferirebbe qualsiasi situazione salvo quella in cui ci si trova, ad una pigrizia giustificata dall'assenza di energie - gli «ignavi» di dantesca memoria -, fino all'inquietudine ansiosa e allo smarrimento totale, nel quale sono possibili i gesti più estremi. Sono tutti sintomi che ci inducono a pensare ad una parola ora parecchio usata - ed abusata - per descrivere molti caratteri profondi ed insinuanti della nostra condizione esistenziale: depressione. Ne ha parlato in un recente articolo lo psicanalista Massimo Recalcati. Egli osserva che nella nostra società si sono imposti due «comandamenti»: il «nuovo» e il «successo». Il primo spinge a «scambiare quello che si ha con quello che ancora non si ha nell'illusione che è quello che non si ha a custodire la felicità». Quanto al secondo, «nessun tempo come il nostro ha enfatizzato come questione di vita o di morte la realizzazione del proprio successo personale», giungendo però a togliere ogni possibilità di significato costruttivo al fallimento o all'errore, che pur fanno parte dell'esperienza. «L'uomo è divenuto una macchina di godimento. E quando questa macchina funziona meno, non è oliata sufficientemente, non ha più benzina, o, più semplicemente, si guasta, si rompe, c'è la caduta nel vuoto», la depressione appunto. Il fatto è che la percezione comune - basta leggere i commenti a tristi fatti di cronaca quotidiana: omicidi apparentemente inspiegabili, suicidi senza particolari motivi, violenze diffuse -, facendo ricorso alla depressione, tende a giustificare ogni comportamento, a farlo dipendere da meccanismi così profondi da non implicare la responsabilità dell'agente. Coraggiosamente Recalcati ricorda che c'è un'altra ipotesi di lettura, quella che riporta al «giudizio di condanna che i padri della Chiesa esprimevano sull'accidia e ha l'obiettivo di mostrare che nella depressione c'è sempre una responsabilità del soggetto che non va dimenticata». Tra i molti testi dei padri della Chiesa che si sono occupati di accidia c'è A Stagirio tormentato da un demone di san Giovanni Crisostomo. Il grande vescovo non impone ulteriori sensi di colpa sulle spalle del suo interlocutore, afflitto da depressione; proprio così la versione italiana traduce il greco athymia, cioè abbattimento d'animo, avvilimento. Semplicemente gli ricorda che difficoltà, fallimenti e insuccessi fanno parte della vita. Non sappiamo - scrive - perché Dio li permetta, ma siamo certi che anch'essi servono a procedere nel cammino di bene verso un destino di felicità: «Dio ha voluto inserire la depressione nella natura umana non perché con leggerezza e inopportunamente ricorriamo ad essa nelle circostanze contrarie e neppure per consumare noi stessi, ma per trarne il massimo profitto». Quindi, totale realismo nella onstatazione delle difficoltà, ma nessun cedimento - qui sarebbe il peccato  allo sconforto. È su questo sottile crinale che la libertà può sempre cegliere. Ne consegue, conclude Giovanni Crisostomo, che «dobbiamo essere epressi non quando patiamo qualcosa di avverso, ma quando operiamo male».

mercoledì 1 maggio 2013

MISTERO RISOLTO

UNA PICCOLA STORIA IGNOBILE, Alessandro Pessinotto, Rizzoli
Patrizia ha le lacrime agli occhi, non so se di dolore o d'emozione. Benedetta pare una statua. Finalmente l'ha ritrovata, ma non le si avvicina, non l'abbraccia, non la saluta nemmeno. Non so se sia per la sorpresa, per la delusione di averla trovata viva o perche' ancora non capisce. Allora provo a spiegare, a esporre le mie congetture, sperando che Patrizia le faccia diventare verita'. Sto per dire "sediamoci", ma mi fermo appena in tempo: il solito imbarazzo di fronte a chi e' sulla sedia a rotelle. Non dico niente e mi siedo, Benedetta mi imita...
 
 
IL LIBRO
Un giallo ambientato dalle mie parti: non me lo aspettavo. Mi e' piaciuto molto leggere nomi di strade, paesi e ambientazioni varie sapendo dove sono esattamente. Protagonista e' una donna, ma lo scrittore e' un uomo e si sente. Credo che anche in Italia ci sia una bella tradizione di thriller o detectives' stories che non ha nulla da invidiare a quelle cosi' di successo del mondo anglosassone. Perfette le descrizioni dei personaggi, dei luoghi e degli intrecci. E, come nel migliore degli esempi, il colpevole viene scoperto solo alla fine!
P.S. Bella la citazione che da' il titolo al romanzo.


G. K. Chesterton
L'avventura suprema è nascere. Così noi entriamo all'improvviso in una trappola splendida e allarmante. Così noi vediamo qualcosa che non abbiamo mai sognato prima. Nostro padre e nostra madre stanno acquattati in attesa e balzano su di noi, come briganti da un cespuglio. Nostro zio è una sorpresa. Nostra zia, secondo la bella espressione corrente, è come un fulmine a ciel sereno. Quando entriamo nella famiglia, con l'atto di nascita, entriamo in un mondo imprevedibile, un mondo che ha le sue strane leggi, un mondo che potrebbe fare a meno di noi, un mondo che non abbiamo creato. In altre parole, quando entriamo in una famiglia, entriamo in una favola.

mercoledì 3 aprile 2013

SCOMODA MEMORIA

LA NOTTE DELL'OBLIO, Lia Levi, Edizione e/o
Aveva gia' segretamente venduto un tappeto che, ne aveva avuto la conferma, era di gran valore, e i famsoi candelieri ottocenteschi d'argento con i timbri russi che tanto piacevano a Giacomo. Si era fatto addirittura il pensiero, Giacomo, che quegli argenti avrebbero potuto salvargli la vita. Ora invece servivano per riannodarla e farla proseguire.
Pareva che in citta' si agitassero ancora tutti all'interno all'interno di una lacerata miseria, ed era vero, ma c'erano anche gli altri, quelli che esistevano e prosperavano, trafficando e giganteggiando sulle altrui ristrettezze. Ma tutto sommato forse quel flusso continuo di oggetti che passavano dai poveri nuovi ai ricchi nuovi era a suo modo un fatto positivo. Forse si trattava di un vento ancora scomposto ma gia' avventurosamente vitale.
 
IL LIBRO
Nel giugno del 1946 il segretario del PCI e ministro della giustizia Palmiro Togliatti fece approvare un'amnistia per tutti i reati comuni e politici che non contemplassero pene superiori a cinque anni di carcere, commessi tra l'8 settembre 1943e la fine della guerra. E questa legge e' un po' il contenitore di questa storia molto umana, tragica e cosi' vicina a noi. Io mi sono sempre chiesta come mi sarei comportata se fossi vissuta nel periodo della dittature e delle leggi razziali in Italia. Da che parte sarei stata? Avrei messo in primo piano la salvezza mia e dei miei familiari o la giustizia? La risposta non e' cosi' scontata. I miei genitori e le loro famiglie si sono adattate, sono reste fuori dai giochi politici ma una ha "regalato" figli alla patria e l'altra ha fatto davvero la fame. Nessuna delle due ha pero' mai avuto contatti con famiglie ebraiche. Certo, gli scheletri negli armadi sono davvero tanti.
 
LA CAREZZA DEL NAZARENO
La ferita di Jannacci

"Un uomo innamorato della vita". Enzo Jannacci si definiva così. Sorriso scolpito; due occhi piccoli e vispi attenti a tutto. Osservava e si lasciava stupire. I personaggi delle sue canzoni li incontrava così, su di un marciapiede, in un tram del centro o sul ciglio della strada. Ed è così che ha incontrato anche noi, un gruppo di amici che cantavamo in piazza del Duomo in occasione dell'esposizione della mostra sui "150 anni di sussidiarietà". Passa di là e si ferma incuriosito. Nonostante sia già visibilmente affaticato dalla malattia che lo avrebbe portato alla morte nel giro di un anno, vuole rimanere lì a cantare. Noi increduli all'inizio e poi esaltati: è come se Paolo Maldini si fermasse al calcizzu... Poi accetta di venire pochi giorni dopo a Portofranco, centro di aiuto allo studio. Rimane stupito: "non immaginavo un posto così adombro di luce e mistero. Pieno di umanità". Sembra assolutamente a suo agio nonostante i duecento ragazzi venuti ad incontrarlo abbiano 60 anni meno di lui. Ci deve essere infatti qualcosa in comune a entrambi; forse è proprio quella ferita che Enzo dice di avere dentro: "non so di che qualità sia, so che è grande. È nata grande e non si chiude. Tanti fanno finta di non averla, tirano dritti. Li guardo, e mi viene da sentirmi male... È giusto che quella ferita rimanga lì, che a volte sanguini e altre no. Ha ragione di esistere? Io dico di sì. È la stessa ferita del Nazareno... L'ha fatta Lui la ferita. L'ha scolpita... E bisogna andarci dietro alla ferita, se no non se ne viene a capo. Bisogna volere bene alle ferite". Conclude intonando "Ti te sè no", canzone che invito tutti ad ascoltare, "perché - dice Enzo - non abbiate mai a dimenticare che tutto ve l'ha mandato Lui". Permettetemi di dire che chi definiva Jannacci un "ateo laico molto imprudente" sbagliava di grosso. Lui la "carezza del Nazareno" l'ha vista quando era piccolo nella faccia di un operaio su un tram di Milano e la porterà sempre nel cuore e nelle sue canzoni. Quando usciva da giovane per qualche performance suo padre gli diceva: "te vet in gir a fa' stupid". È vero, gli riusciva benissimo di fare lo stupido, ma stupido proprio non era. Aveva una laurea al conservatorio in pianoforte, composizione, armonia e direzione d'orchestra e, come non bastasse, si era laureato anche in medicina ed era diventato un affermato cardiologo. Oggi tutti lo ricordano con simpatia e un po' di commozione: come spesso accade, quando un artista muore mette tutti d'accordo; ma qui oltre a rimpiangere uno dei più grandi artisti italiani del dopoguerra, c'è da capire cosa Enzo ha provato a dirci durante la sua carriera lunga più di mezzo secolo, e cosa c'entri con noi oggi e con il nostro prossimo futuro.
Se quello che diceva Jannacci valeva ai "suoi tempi" deve valere anche oggi.
Per esempio quella ferita sanguinante di cui Enzo parlava ai ragazzi di Portofranco non può essersi rimarginata. Penso sia proprio la stessa ferita aperta e non corrisposta da nessun programma elettorale che ha spinto otto milioni di italiani a votare Grillo. E non finisce qui. In una intervista del 2009, nel pieno del caso Englaro, Jannacci riconosceva il bisogno impellente per l'uomo di una "carezza dal Nazareno". Infatti Enzo diceva: "se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo eccome, però avremmo così bisogno di una sua carezza". Aveva ragione. Non potendo raggiungere in alcun modo ciò che ultimamente desideriamo, l'unica cosa razionale che possiamo fare è chiedere; anche solo una carezza. E così, mentre il mondo si scannava dibattendo su diritti e valori dell'uomo, solo lui introduceva un fattore che fosse altro da noi e dai nostri mutevoli criteri di giudizio. In una situazione come quella attuale, così drammatica e instabile, queste dichiarazioni di Jannacci sembrano quanto mai attuali e decisive. Spero di non azzardare troppo se dico che tali parole sono sulla stessa lunghezza d'onda di quelle più recenti di Papa Francesco che ci esorta a pregare e domandare a Dio perdono e misericordia. Lui infatti ci ascolta e ci perdona: "non stanchiamoci mai di chiedere perdono al Signore! Nostro Padre non si stanca mai di perdonarci". Jannacci si spegneva proprio il Venerdì Santo, quando Gesù salendo sul Calvario ci dà la prova più eclatante del Suo amore per noi, offrendoci quella carezza della quale Enzo sentiva tanto bisogno e che ora sta già gustando.
Giovanni Aime