L'UOMO CHE FISSAVA LE CAPRE, Jon Ronson, Einaudi.
Non mi era difficile capire quale alternativa avesse in mente, data la sua area di competenza. Se non si potevano uccidere i nemici e neanche tenerli in prigione, i parametri del colonnello Alexander prevedevano sicuramente un'altra opzione; fargli cambiare idea.
Il Manuale operativo del Primo Battaglione Terra aveva incoraggiato la progettazione di apparecchi in grado di "convogliare energia verso le masse". Ma la storia ci insegna che quando l'America si trova a fronteggiare una grande crisi - la guerra del Terrore, la traumatica esperienza del Vietnam con tutti i suoi strascichi, la guerra fredda - prima o poi l'intelligence militare accarezza l'idea di controllare il pensiero. Comincia a sfornare una serie infinita di idee stravaganti che necessitano di verifica, e che sembrano tutte molto buffe, finchè non vengono effettivamente messe in pratica.
IL LIBRO
Ne è stato tratto un film, che non ho visto. L'autore, un giornalista, raccoglie testimonianze di come l'esercito americano e i servizi segreti tentino di vincere le loro battaglie con mezzi che, a noi normali civili, sembrano assurdamente ridicoli. Eppure, citando George Clooney che è parte del cast, "le parti più assurde della storia sono anche quelle accadute davvero". Il libro sembra rafforzare il pregiudizio sulla stupidità degli Americani. La fuga di cervelli, di cui si affligge l'Europa e buona parte del mondo, colma il vuoto di cui sono portatori gli Stati Uniti. E' vero che, a parte la Seconda Guerra Mondiale, non è che abbiano riportato molte vittorie eppure le risorse sono tante e anche la volontà di fare bene. Non entro nel merito dei contenuti, il libro è sicuramente interessante, alcune parti sono più scorrevoli di altre ma credo che, l'averne tratto una sceneggiatura per un film , abbia del miracoloso.
RAZZA D'AMERICA (sussidiario.net, 11 febbraio 2010)
Credo che molti dei miei amici non americani non capiscano appieno l’influenza che il razzismo ha sulla vita americana e, di conseguenza, sulla politica americana. Nato in Portorico, io sono americano di nascita, ma sono cresciuto in una cultura fondamentalmente latino-americana e cattolica.
La prima volta che visitai Washington, turista adolescente, mentre andavo in taxi dall’affittacamere presso la quale avrei abitato, una signora portoricana amica di famiglia, vedevo davanti a piccoli alberghi e case con camere in affitto cartelli con la scritta “Solo bianchi”. Non capendo, chiesi al tassista (un nero) cosa significassero quei cartelli ed egli mi rispose: «Significa che io non potrei mai prendere una camera in affitto in quei posti».
Quando finalmente arrivammo a destinazione, rimasi inorridito di trovare anche qui un cartello con su “Solo bianchi”. Il tassista mi guardò e, sorridendo, mi disse: «Come vedi, non potrei prendere una camera in affitto neppure dove starai tu». Più tardi, chiesi alla signora portoricana perché avesse esposto quel cartello così estraneo alla nostra cultura, ed ella mi rispose: «Non ne capisco molto, ma non voglio avere problemi da certa gente che abita qui attorno».
Un anno dopo, tornai a Washington per studiare al college. I cartelli erano spariti e l’amica portoricana era tornata a Portorico. Un giorno entrai in un negozio di barbiere, avevo i capelli molto lunghi, e improvvisamente mi resi conto che sia il barbiere che i suoi clienti erano di colore. Mi trovai immediatamente a pensare: «Chissà se costui sa tagliare i capelli a un bianco».
E subito mi ricordai che a Portorico il mio barbiere era stato, fin dalla mia infanzia, un nero e che non lo avevo mai notato prima! Adesso, invece, avevo notato subito la razza di questo barbiere. Mi era capitato qualcosa, senza che me ne accorgessi: il razzismo americano mi era entrato nel cuore, sia pure in una forma mitigata.
Mentre sto scrivendo questo editoriale, HBO-TV sta trasmettendo la terza parte di una serie di programmi su cosa significhi essere un nero nell’America di oggi. Stasera sono di scena afroamericani famosi, di successo, potenti e popolari e, abbastanza sorprendentemente, tutti hanno affermato il loro essere negri come un aspetto imprescindibile della loro storia personale.
Può avere reso la loro lotta per il successo ancor più dura, o averla al contrario facilitata, ma il punto importante è che nessuno di loro è stato capace di dimenticare la propria razza. Come molti dei loro colleghi o amici non neri, anche essi si sono commossi per l’elezione di Barack Obama, chiedendosi se una “società post razziale” avesse improvvisamente iniziato a essere possibile negli Stati Uniti.
In effetti, molti commentatori, esponenti dei movimenti per i diritti civili e normali cittadini hanno incominciato a discutere su questo argomento. Tuttavia, è chiaro che il famoso sogno di Martin Luther King Jr. è ancora oggi rimasto un sogno. Il fattore razziale è ancora, come lo spettacolo televisivo di stasera dimostra, parte non irrilevante della vita americana.
Non sto pensando ai razzisti dichiarati che si considerano superiori a “quelli di colore”, ma ho in mente persone, bianchi e neri, che realmente vogliono che il fattore razza sparisca dalla vita personale e pubblica (per esempio, nell’ultimo editoriale, Chris Matthews che disse di aver dimenticato, ascoltando il discorso sullo Stato dell’Unione, che Obama era il primo presidente afroamericano). Ma sarà mai possibile realmente? Certamente, se possibile è in questo Paese che può succedere. Ma potrà mai succedere?
Credo che molti dei miei amici non americani non capiscano appieno l’influenza che il razzismo ha sulla vita americana e, di conseguenza, sulla politica americana. Nato in Portorico, io sono americano di nascita, ma sono cresciuto in una cultura fondamentalmente latino-americana e cattolica.
La prima volta che visitai Washington, turista adolescente, mentre andavo in taxi dall’affittacamere presso la quale avrei abitato, una signora portoricana amica di famiglia, vedevo davanti a piccoli alberghi e case con camere in affitto cartelli con la scritta “Solo bianchi”. Non capendo, chiesi al tassista (un nero) cosa significassero quei cartelli ed egli mi rispose: «Significa che io non potrei mai prendere una camera in affitto in quei posti».
Quando finalmente arrivammo a destinazione, rimasi inorridito di trovare anche qui un cartello con su “Solo bianchi”. Il tassista mi guardò e, sorridendo, mi disse: «Come vedi, non potrei prendere una camera in affitto neppure dove starai tu». Più tardi, chiesi alla signora portoricana perché avesse esposto quel cartello così estraneo alla nostra cultura, ed ella mi rispose: «Non ne capisco molto, ma non voglio avere problemi da certa gente che abita qui attorno».
Un anno dopo, tornai a Washington per studiare al college. I cartelli erano spariti e l’amica portoricana era tornata a Portorico. Un giorno entrai in un negozio di barbiere, avevo i capelli molto lunghi, e improvvisamente mi resi conto che sia il barbiere che i suoi clienti erano di colore. Mi trovai immediatamente a pensare: «Chissà se costui sa tagliare i capelli a un bianco».
E subito mi ricordai che a Portorico il mio barbiere era stato, fin dalla mia infanzia, un nero e che non lo avevo mai notato prima! Adesso, invece, avevo notato subito la razza di questo barbiere. Mi era capitato qualcosa, senza che me ne accorgessi: il razzismo americano mi era entrato nel cuore, sia pure in una forma mitigata.
Mentre sto scrivendo questo editoriale, HBO-TV sta trasmettendo la terza parte di una serie di programmi su cosa significhi essere un nero nell’America di oggi. Stasera sono di scena afroamericani famosi, di successo, potenti e popolari e, abbastanza sorprendentemente, tutti hanno affermato il loro essere negri come un aspetto imprescindibile della loro storia personale.
Può avere reso la loro lotta per il successo ancor più dura, o averla al contrario facilitata, ma il punto importante è che nessuno di loro è stato capace di dimenticare la propria razza. Come molti dei loro colleghi o amici non neri, anche essi si sono commossi per l’elezione di Barack Obama, chiedendosi se una “società post razziale” avesse improvvisamente iniziato a essere possibile negli Stati Uniti.
In effetti, molti commentatori, esponenti dei movimenti per i diritti civili e normali cittadini hanno incominciato a discutere su questo argomento. Tuttavia, è chiaro che il famoso sogno di Martin Luther King Jr. è ancora oggi rimasto un sogno. Il fattore razziale è ancora, come lo spettacolo televisivo di stasera dimostra, parte non irrilevante della vita americana.
Non sto pensando ai razzisti dichiarati che si considerano superiori a “quelli di colore”, ma ho in mente persone, bianchi e neri, che realmente vogliono che il fattore razza sparisca dalla vita personale e pubblica (per esempio, nell’ultimo editoriale, Chris Matthews che disse di aver dimenticato, ascoltando il discorso sullo Stato dell’Unione, che Obama era il primo presidente afroamericano). Ma sarà mai possibile realmente? Certamente, se possibile è in questo Paese che può succedere. Ma potrà mai succedere?
Sono arrivato alla conclusione che nessuno sforzo personale, giuridico, politico o economico potrà mai costruire una società veramente “post razziale”. Questo problema è una manifestazione del conflitto tra diversità e unità. Nessun sforzo umano sarà in grado di eliminare questo conflitto, o sarà capace di trovare una armoniosa via di mezzo.
Questo può solo accadere, ed essere sperimentato, come pura grazia, del tutto miracolosa, come carità divina che si manifesta, si incarna, in una Chiesa che è il “sacramento” della vera unità tra tutti. Questa è la vocazione della Chiesa. Il suo contributo a questo nobile, ma ultimamente tragico, sforzo puramente umano di persone di buona volontà è proprio dare testimonianza di questo evento.
Ho scritto questo articolo nel giorno dedicato a Santa Josephine Bakhita, una schiava africana. Nell’enciclica Spe Salvi, Papa Benedetto XVI si riferisce a lei come a un esempio della speranza che guida il nostro cuore a un’autentica armonia tra tutti gli uomini, un’armonia che è diventata carne.
Questo può solo accadere, ed essere sperimentato, come pura grazia, del tutto miracolosa, come carità divina che si manifesta, si incarna, in una Chiesa che è il “sacramento” della vera unità tra tutti. Questa è la vocazione della Chiesa. Il suo contributo a questo nobile, ma ultimamente tragico, sforzo puramente umano di persone di buona volontà è proprio dare testimonianza di questo evento.
Ho scritto questo articolo nel giorno dedicato a Santa Josephine Bakhita, una schiava africana. Nell’enciclica Spe Salvi, Papa Benedetto XVI si riferisce a lei come a un esempio della speranza che guida il nostro cuore a un’autentica armonia tra tutti gli uomini, un’armonia che è diventata carne.
Lorenzo Albacete
2 commenti:
Complimenti!
Sei tra le semifinaliste.
Un saluto...
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