venerdì 1 maggio 2009

LA CLASSE OPERAIA COME MOTIVAZIONE A FARE MEGLIO

(Claudio Romani)


LA SOLITUDINE DEL MARATONETA, Alan Sillitoe, Minimum Fax


Ad un tratto lei disse: "Io ti amo sul serio, Harry". Per qualche istante non udii le parole, come succede spesso quando si sta leggendo un libro. Poi: "Harry, guardami". Il mio viso si alzò, sorrise; e si abbassò di nuovo immergendosi nela lettura. Forse il torto fu mio, avrei dovuto dire qualcosa, ma il libro era troppo bello.
"Sono sicura che tutto quel leggere ti fa male agli occhi", commentò lei, strappandomi nuovamente dal mondo caldo ed esclusivo dell'India. "Ma no", dissi io, senza alzare lo sguardo. Lei era giovane e ancora bella, una donna sulla trentina, ardente e flessuosa, che non mi avrebbe mai permesso di sottrarmi nè alla sua ostinazione nè alla sua collera. "Il mio babbo diceva che solo gli stupidi leggono libri, perchè hanno tanto da imparare.



IL LIBRO

E' una raccolta di racconti, genere che normalmente non leggo perchè non mi piacciono le cose brevi. Dal primo, che dà il titolo, era stato tratto un vecchio film inglese in bianco e nero che mi eera davvero notevole. I racconti descrivono uno spaccato della società inglese nell'immediato dopoguerra, quando la ripresa tarda ad arrivare e la crisi economica sembra lontana da una risoluzione. E' la classe operaia vera, quella descritta dal socialismo, dalla quale chi veramente è motivato può emergere a costo di duri sacrifici. E i sacrifici non sono tolti a nessuno: ai padri di famiglia che devono portare a casa il loro salario, ai piccoli delinquenti, che cercano vie più facili, a chi cerca un posto sicuro nell'esercito, ai ragazzini che frequentano scuole dove gli insegnanti non hanno nulla a che vedere con i nostri contemporanei. L'autore è parte di loro, scrive di ciò che conosce, come gli aveva suggerito un amico. Nella biografia viene detto che la stessa madre di Sillitoe ad un certo punto della sua vita è costretta a prostituirsi per mantenere i figli. A noi sembra un mondo così lontano: il problema più grave dei nostri ragazzi è quale marca di cellulare comprare. Tira un vento di crisi economica e molti amici vengono messi in cassa integrazione, mobilità o perdono il lavoro. I nostri giovani non hanno modo di prevedere nemmeno il futuro più immediato. Si dovrà decidere che cosa è essenziale e i sacrifici torneranno ad essere parte della nostra vita quotidiana.

Da Il Sussidiario.net


SEVESO/ La Brianza chiama l’Abruzzo: nel disastro, la forza di ricostruire

lunedì 27 aprile 2009

Il 10 luglio 1976 Seveso divenne improvvisamente nota in tutto il mondo. Dal reattore di una fabbrica svizzera nella vicina Meda, l’Icmesa, si era liberata nell’aria una nube di diossina, una sostanza di cui poco si conosceva se non l’alto grado di tossicità. Seveso si ritrovò sotto i riflettori del mondo come teatro del primo rilevante incidente industriale in Europa. Centinaia di persone persero la casa, il lavoro, la serenità, e gli sciacalli ideologici di turno provarono ad approfittare della confusione per scardinare il tessuto sociale del paese e dell’Italia intera, con campagne allarmiste e pro-aborto.
Come oggi accade per la popolazione dell’Abruzzo, ogni calamità – indotta dall’uomo o meno poco importa – svela non solo il bisogno delle persone di essere sostenute nei bisogni quotidiani, ma anche e soprattutto la necessità che qualcuno abbia il coraggio di riaffermare, con forza e passione, la fiducia nell’altro, il desiderio di costruire a partire da qualcosa di vivo, fecondo, ricco di certezza. Che qualcuno, cioè, possa esprimere un impeto educativo vero, per sé e per gli altri. Proprio questo accadde, a Seveso.
Ambrogio Bertoglio allora era un giovane medico trentenne. «Non solo l’incidente - ricorda oggi - ma anche la campagna ideologico-mediatica colpiva pesantemente le famiglie in vario modo. Soprattutto le centinaia di bambini, che da un giorno all’altro trovarono le strade, i prati, i cortili delle zone infestate interdetti al gioco e le scuole chiuse senza sapere quando avrebbero potuto tornarci. Per certi aspetti uno straniamento paragonabile, con le dovute differenze, a quello che vediamo oggi per i terremotati».
«Con gli amici ci rendemmo conto - racconta Bertoglio - che i problemi che si aprivano a Seveso erano di tale portata, mettevano in gioco valori personali e sociali tali, che solo un nostro impegno in prima persona avrebbe potuto rispondere con vera creatività e responsabilità. Forti solo dell’esperienza di bene e positività totale vissuta negli ambiti cristiani delle parrocchie e dei movimenti ecclesiali, ci inventammo una segreteria per coordinare tutte le energie che liberamente si sprigionavano fra le persone e ci buttammo senza riserve a sostenere con “incosciente” coraggio la speranza nostra e delle persone più colpite dall’incidente».
Un’esperienza che subito si allarga, coinvolge altre persone nei dintorni. «Le parrocchie di altri paesi - continua Bertoglio - misero a disposizione gli spazi per le persone bisognose. Ci si mise in moto per organizzare centri educativi e ricreativi dove i bambini potessero passare la giornata per poi la sera tornare dai propri genitori. Era cominciata un’opera educativa permanente che sarebbe continuata in questa forma fino al 1980».
«Nel ’76 avevo 17 anni - ricorda Rosalinda Pivetta, oggi maestra elementare - e con altri amici più grandi passai quell’estate e quelle successive collaborando ai centri diurni che avevamo organizzato per allontanare i più piccoli dalle zone inquinate e offrire loro una compagnia dove sperimentare un po’ di serenità, che, per ovvie ragioni, i famigliari con la preoccupazione della casa e della salute a rischio non riuscivano a garantire. Dopo un breve tragitto in pullman si raggiungeva un bel posto in Brianza dove si trascorreva la giornata giocando, cantando, pregando e cimentandoci in laboratori creativi. Ricordo quel periodo con vera gratitudine. Io, e come me i miei amici, non ho guadagnato nulla dal punto di vista economico, ma ho imparato che rispondendo al bisogno di altri si trova risposta anche al proprio bisogno più grande: stare di fronte a ciò che accade, soprattutto se drammatico e doloroso, con la certezza che tutto ha senso e che, misteriosamente, questo senso è buono».
«Ricordo nitidamente - riprende Bertoglio - la gratitudine di molte famiglie, che ci dicevano: “Abbiamo scoperto una vita più umana di cui sentivamo il bisogno. Abbiamo capito che non si può essere uniti solo con quelli della propria famiglia, cui si è legati per motivi di affetto, ma che è possibile trasferire la fraternità anche fuori dalle mura di casa, nel quartiere e con tutta la società”».
Qualcosa cioè che sembrava impossibile, ma che ha tenuto insieme le persone e di fatto fecondato la storia di un paese, che oggi non solo è vivo e in continua crescita, ma che esprime una ricchezza di opere educative, sociali e assistenziali gestite “dal basso” difficilmente reperibile altrove.
Seveso, come il Friuli, oggi dice questo all’Abruzzo: che solo l’educazione ricostruisce un popolo, perché il bisogno di qualcuno che ci introduca a scoprire il significato buono di tutto è essenziale alla vita quanto il mangiare e il bere.

(Giovanni Toffoletto)

















3 commenti:

palmy ha detto...

Vivere su una terra ad alto rischio sismico, aver già provato un terremoto e sapere che il nostro Stato non farà niente se non ricostruire alla meno peggio laddove è necessario non ti fa stare tranquillo... poi per carità si può morire in tanti modi e avere una Speranza è vitale, essenziale come dice l'articolo, però io vorrei una casa antisismica, oggi.

maria stella ha detto...

Ad ognuno le sue responsabilità!

palmy ha detto...

Lo sai, la mia alunna, maalta di leucemia, non ce l'ha fatta.